Paolo Mereghetti
“Il posto delle fragole”
Ingmar Bergman
Iperborea Edizioni
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“Il posto delle fragole” il testo di Ingmar Bergman, diventato film, è stato chiuso il 31 maggio 1957, a Stoccolma.
Sono 65 anni di un testo straordinario che fa scendere nella profondità dell’animo umano.
Esiste forse per tutti un posto delle fragole. Un luogo dove rimane intatto l’incanto dell’infanzia, l’io che eravamo, con la semplicità, l’autenticità e le speranze di quando la vita era davanti, un luogo, che forse c’è ancora dentro o fuori di noi, dove qualcuno può metterci davanti uno specchio e farci vedere quello che siamo diventati, quello che abbiamo perduto, quello che forse possiamo ancora ritrovare. Sono le fragole selvatiche colte nel giardino della casa d’infanzia la madeleine di Isak Borg, vecchio professore egoista e misantropo. Quest’uomo in viaggio da Stoccolma a Lund per la celebrazione del suo giubileo all’Università, coronamento della carriera di medico e ricercatore. Da lì i ricordi prendono a intrecciarsi alla realtà, trasformando il viaggio verso Lund in una sorta di pellegrinaggio, in cui gli episodi, i sogni, gli incontri sono come tappe di un percorso catartico all’interno di se stesso. Il vedersi attraverso gli occhi degli altri, l’incidente con la coppia in eterno reciproco tormento, la visita alla madre gli lasciano intravedere i suoi fallimenti, il vuoto della sua solitudine e quella verità che sembrano volergli comunicare i suoi incubi. «Sono morto. Anche se sono vivo.» Mentre la presenza della nuora Marianne, la freschezza dei tre ragazzi cui offre un passaggio, Victor e Anders con i loro litigi su Dio, e Sara, così lieve e piena di voglia di vivere. E lei è così simile all’amata cugina Sara che ricompare nei suoi sogni, gli aprono la via verso una riconciliazione. La vecchiaia, l’infanzia, la giovinezza, l’esistenza di Dio, le occasioni perdute, la nostalgia, l’amore sono i temi intorno a cui si gioca ancora una volta la partita a scacchi tra la morte e la vita per il possesso di un’anima.
Ingmar Bergman (1918-2007), è uno dei maestri indiscussi della cinematografia internazionale. Figlio di un pastore protestante della corte reale, debutta come drammaturgo negli anni Quaranta, dando espressione al clima angoscioso del periodo con una serie di drammi che si riallacciano alla tradizione di Strindberg, H. Bergman e Lagerkvist. Ma l’affermazione giunge a partire dagli anni Cinquanta, con l’attività di regista di cinema e di teatro, due ambiti che si intrecciano continuamente nella sua opera.
Paolo Mereghetti (Milano 1949), giornalista e critico cinematografico per il Corriere della Sera e il magazine Io Donna, ha scritto su Ombre rosse, Positif, Linea d’ombra, Reset, Lo straniero e tiene una rubrica su Ciak. Ha pubblicato per i Cahiers du Cinéma e Le Monde un volume su Orson Welles, poi editato in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Nel 2012 ha curato per Contrasto il volume Movie:Box, tradotto in sei lingue. E’ stato consulente per la Mostra del cinema di Venezia durante le direzioni di Lizzani, Rondi e Barbera. Ha pubblicato, tra gli altri, saggi e volumi su Arthur Penn, Marco Ferreri, Bertrand Tavernier, Sam Peckinpah, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Serge Daney e Jacques Rivette. Nel 2001 ha vinto il Premio Flaiano per la critica cinematografica.
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