Conversazione di Livio Partiti con Carlo Ossola "Introduzione alla Divina Commedia", Marsilio.
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CARLO OSSOLA
INTRODUZIONE ALLA DIVINA COMMEDIA
MARSILIO
(dall'introduzione di Carlo Ossola)
Dalla mia mancata tesi di laurea sui Canti dell’Antipurgatorio, propostami da Giovanni Getto nel 1967 alla Lectura
Dantis professata al Collège de France nel triennio scorso – e nel mezzo
gli annuali cicli di esami e di tesi nell’Università di Torino, le
letture con Mario Luzi e Anna Maria Chiavacci Leonardi nel «bel San
Giovanni», qualche restauro sul testo – il «poema sacro»
«m’ha fatto per molti anni macro» (Par., XXV, 1-3). Non sono giunto a
impararlo a memoria e so dunque che non aderirò mai al “sacramento” di
quel viaggio. Ma credo, come molti altri lettori nei secoli, che
«Quest’è ’l principio, quest’è la favilla / che si dilata in fiamma poi
vivace, / e come stella in cielo in me scintilla» (Par., XXIV, 145-147).
Jorge Luis Borges ha carezzato, come il più bello della Commedia e
delle letterature romanze, un verso del primo canto del Purgatorio:
«Dolce color d’orïental zaffiro». Nulla togliendo alla luminosità di
quell’alba, pure – nel tempo – mi è divenuta più cara un’immagine che
chiude il canto II del Paradiso: «come letizia per pupilla viva» (v.
144). La penso, ora che tutte le avanguardie del xix e xx secolo hanno
attraversato la nostra coscienza di lettori, come un “precorrimento che
sopravanza” la lettera stessa di Baudelaire a Charles Asselineau o le
vaticinazioni di Artaud: la «pupilla viva» è più che l’«oeil vivant»;
essa non è tale per l’acuità della propria visione onirica ma per la
«letizia» che la anima di una luce che emana «de la mente profonda»
dell’universo. La Commedia non è poema mistico, non è itinerario
sapienziale o iniziatico, neppure e solo debito di fedeltà a Beatrice,
ma accessus – pur impervio e limitato – alla letizia dello sguardo, di
lume in lume, di cielo in cielo, della e nella «gloria di colui che
tutto move» (Par., I, 1), dalla quale – appunto come i cieli – il poema
«prende l’image e fassene suggello» (Par., II, 132).
Questa mia introduzione rimane nella scia dell’ipotesi critica che
Giovanni Getto tra i primi avanzò sulla natura “ascendente” della
Commedia, ove il Paradiso non è “sovrastruttura” impoetica (De Sanctis,
Croce), ma elevazione – nel “sempre” della «gloria» – della propria e di
tutte le vicende umane. Sin dal 1947 metteva in rilievo nel Paradiso
«cotesto epos della vita interiore come esultanza dello spirito elevato
verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e
dell’eterno».
Dante è teste per l’umanità intera: la sua storia personale, di esule e di “fedele d’amore”, è nel Paradiso storia di
«everyman», come ben vide Ezra Pound; Dante è il “novello Adamo” di un’umanità redenta; lo segnala il poeta stesso,
“lasciandosi abbandonare” negli ultimi canti da Beatrice per altra
guida. Per questo occorre restaurare, nel testo del poema, un verso
testimoniato dai codici antichi più autorevoli e propugnato da Boccaccio
nelle sue Esposizioni.
Si rilegga l’incontro di Dante con Adamo nel Paradiso: la prima
creatura e quella eletta che ripercorrono la storia dell’umanità
redenta. La terzina in questione suona, nell’edizione Petrocchi: «Indi
spirò: “Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio /
che tu qualunque cosa t’è più certa”» (Par., XXVI, 103-105). L’altra
lezione, suggerita da un numero considerevole di codici antichi: «Indi
spirò: “Sanz’essermi proferta, / Dante, la voglia tua discerno meglio”»,
è di straordinaria importanza teologica e poetica. Il nome «Dante» è
già stato pronunciato, la prima volta, da Beatrice – ma in forma di
rimprovero – nel Paradiso terrestre; il doverlo “registrare” è atto
solenne e insieme dolente: «quando mi volsi al suon del nome mio, / che
di necessità qui si registra» (Purg., xxx, 62-63). Esso è associato a
Virgilio, alla poesia e al «fedele» (Purg., xxxi, 134) d’amore; è
attestazione che riguarda le arti umane, fatta in un luogo ormai deserto
nell’economia della salvezza. È dunque coerente che il poeta faccia
ripetere il suo nome dal “primo uomo”, nel luogo dell’eterna salvezza,
poiché Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l’autore – appena
celebrato nel canto precedente – del «poema sacro»: «Se mai continga che
’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha
fatto per molti anni macro, / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del
bello ovile ov’io dormi’ agnello» (Par., xxv, 1-5). Egli è ormai, e per
sempre, Everyman, come si dimostrerà infra, il “novello Adamo”
dell’umanità redenta e dal «padre antico»
(Par., xxvi, 92) riceve la più alta consacrazione.
Se ne avvide per primo il più acuto dei commentatori antichi,
Giovanni Boccaccio, il quale nelle sue Esposizioni, e sin dall’Accessus,
volle sottolineare, richiamando l’apostrofe di Beatrice, che Dante «a
due eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare»:
L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo
padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e
perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da
lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con
la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso,
là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”, etc.
Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio
copista, in particolare nell’esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di
mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a
lettore di Dante, nell’agosto del 1373», si dovrà concludere che anche
lì un codice [Chig] «il quale si impone sugli altri con la qualifica di
edizione ultima e definitiva del testo dantesco» mantiene la lezione
«Dante, la tua voglia discerno meglio», con perfetta coerenza rispetto
alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.
E, prima di Boccaccio, i più autorevoli commentatori, da Pietro
Alighieri alle Chiose ambrosiane a Francesco da Buti, accolgono – nelle
loro chiose – quella lezione, accreditata del resto dai codici più
antichi, il Landiano, 1336, e il Trivulziano, 1337.
Filologia ed esegesi non possono che essere strettamente unite: e qui
restituiscono Dante «a così alto volo» (Par., xxv, 50); poiché anche il
nome, come il viaggio, ha la sua teleologia – «perché vi s’immegli»
(Par., xxx, 87) – e la sua meta: «e la sua terra è questa dolce vita»
(Par., xxv, 93).
Questa introduzione non sostituisce i commenti né la critica né la
migliore esegesi della Commedia (dei quali si dà conto nella
Bibliografia essenziale); vorrebbe proporsi – incitando innanzi tutto
alla lettura dell’Epistola a Cangrande – come un accessus per il lettore
del XXI secolo. Anche per questo risalta in copertina un’opera di
Anselm Kiefer, l’artista contemporaneo che, per il suo forgiare forme
varcando lo spazio, meglio eredita da Michelangelo e da Dante,
nell’incessante “slancio di culminazione” dal gravame dei registri alle
ali del volo. Per questo ogni vera opera d’arte è “principio e fine”, A
e Ω che ricapitola l’origine e precorre apocalissi, disvelamento sempre:
«Nous souhaiterions créer quelque chose qui serait à la fois le
commencement et la fin. Nous aimerions parvenir à ce point culminant à
partir duquel, de part et d’autre, tout descend à la verticale, et dont
la plus grande difficulté est encore de s’y maintenir». Così occorre
pensare alla Commedia, come a «l’albero che vive de la cima»
(Par.,XVIII, 29); e così l’hanno intesa i poeti contemporanei che più
l’hanno meditata, in quell’assillo agostiniano del «nosse simul, nosse
simul» che Giovanni Giudici ha posto al centro della sua riscrittura del
Paradiso, in un unico anelito ricapitolando il poema: «Di tutti i
nostri prima unico poi…».
Torino, 25 dicembre 2011
ascolta qui la conversazione
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Carlo Ossola
www.treccani.it
Òssola, Carlo. – Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.
Condirettore delle riviste «Lettere Italiane» e «Rivista di Storia e
Letteratura Religiosa»; socio dell’Accademia dei Lincei dal 1995; membro
del Consiglio Scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Dal
2007 è direttore dell’Istituto di studi italiani dell’Università della
Svizzera Italiana a Lugano.
Autore di saggi in cui all’acume del filologo si uniscono le competenze
del comparatista e dello storico delle idee, si è occupato in
particolare della cultura rinascimentale e della civiltà delle corti in
Europa: Autunno del Rinascimento: “Idea del tempio dell’arte” nell’ultimo Cinquecento, 1971; Dal “Cortegiano” all’“Uomo di mondo”: storia di un libro e di un modello sociale, 1987, ampliato nell’edizione francese: Miroirs sans visage. Du courtisan à l’homme de la rue, 1997. Alla topica dei testi e delle idee, ai confini dello spazio letterario e delle figure che lo interpretano sono dedicati Figurato e rimosso: icone e interni del testo, 1988; e L’Avenir de nos origines. Le copiste et le prophète, 2004. Nei suoi studi sugli autori contemporanei un posto di spicco spetta a Ungaretti: la monografia Giuseppe Ungaretti, 1975; l’edizione commentata, secondo il testo del 1916, de Il Porto Sepolto, 1981; la ripubblicazione de Il povero nella città (1993), un libro di prose poetiche apparso nel 1949, e di un volume di testi rari: Filosofia fantastica. Prose di meditazione e d’intervento (1926-1929), 1997; i nuovi «Meridiani» delle Poesie complete, 2009 e delle Traduzioni poetiche,
2010. Ha curato l’edizione di inediti e rari di Juan de Valdès, E.
Tesauro, J.-B. Bossuet, A. Rossi, C. Cantù, W. Deonna, R. Caillois, M.
Olivetti, M. de Certeau, R. Barthes, D. Hammarskjöld, M. Milner, con
particolare attenzione alla civiltà barocca: L’anima in barocco: testi del Seicento italiano, 1995; Le antiche memorie del nulla, 1997 e 2007. Ha
diretto per vent’anni i corsi di Alta Cultura della Fondazione Giorgio
Cini, pubblicando, con Vittore Branca, volumi di ampio respiro
culturale. Ha dedicato approfonditi studi alla tradizione delle
istituzioni letterarie nella scuola: Brano a brano. L’antologia di italiano nella scuola media inferiore, 1978, e con P. M. Bertinetto: La pratica della scrittura: costruzione e analisi del testo poetico, 1976, e Insegnare stanca, 1982. Ha diretto, con Cesare Segre, l’Antologia della poesia italiana
(3 voll., 1997-99) per la «Pléiade» Einaudi-Gallimard. Per l’Istituto
della Enciclopedia Italiana, oltre a dirigere la collana «Classici
Ricciardi», della quale ha curato il volume Libri d’Italia. 1861-2011
(2011), ha diretto la collana «Classici Treccani. I grandi autori della
letteratura italiana», per la quale ha curato i volumi D. Alighieri, Commedia, 2011, e A. Manzoni, I Promessi Sposi, 2012. Tra i suoi libri recenti si segnalano anche: Il continente interiore, 2010; Introduzione alla Divina Commedia.
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IL POSTO DELLE PAROLE
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