Anna Nadotti “Premio Cesare Pavese”

Premio Cesare Pavese Premio Cesare Pavese

Anna Nadotti
“Premio Cesare Pavese”

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Anna Nadotti
Lettrice per passione e per professione, traduttrice, editor, e consulente Einaudi per le letterature anglofone. Ha curato, tra altre, la traduzione delle opere di AS Byatt (a quattro mani con Fausto Galuzzi), di Anita Desai, di Amitav Ghosh, di Hisham Matar, di Rachel Cusk, di Tash Aw; la traduzione di Carne, di Ruth Ozeki, e di Romanzieri ingenui e sentimentali di Orhan Pamuk. Per Einaudi ha curato una nuova traduzione della Signora Dalloway e di Gita al Faro, di Virginia Woolf. Sta ora traducendo The Shadow King, di Maaza Mengiste, shortlisted per il Booker Prize 2020. Scrive per varie testate. Collabora con la Scuola Holden di Torino. Ha ricevuto il Premio AVA per la Cultura, Venezia 2013.

Motivazione del Premio Cesare Pavese, per la traduzione:Anna Nadotti traduce da più di 30 anni: lunghissimo, quindi, è l’elenco degli autori di cui è la voce italiana. Ha legato strettamente il suo nome, in particolare, ad alcuni scrittori di cui ha tradotto tutta l’opera, specie per gli editori Einaudi e Neri Pozza: all’indiano Amitav Gosh; all’inglese Antonia Byatt, autrice del celebre Possessione; alla grande scrittrice indiana Anita Desai; all’anglo-libico Hisham Matar, l’autore de Il Ritorno; alla canadese Rachel Cusk, di cui è in uscita da Einaudi l’ultimo libro. Last but not least, a Virginia Woolf, di cui ha ritradotto Mrs Dalloway e Gita al faro.

Ma il Premio Pavese per la traduzione non è un semplice premio alla carriera, e non omaggia la semplice quantità di energie spese, bensì la qualità dei risultati raggiunti nel proporsi come modello sia di arte, sia di mestiere. Mestiere nel senso pavesiano di lavoro ben fatto, raggiunto con fatica, come unico mezzo per fare arte, letteratura, poesia. Anna Nadotti questa qualità, la rappresenta pienamente. Dalla sua penna, o tastiera, esce una lingua “soave”. Impeccabile. Spasmodicamente precisa. La preparazione con cui si avvicina ai suoi autori è assoluta ed esemplare: un’immersione totale, spesso non solo virtuale ma anche reale, nei mondi che deve tradurre, siano essi Londra o Calcutta. E non solo oggettiva, documentaria, ma anche soggettiva, sensoriale. Per non perdere nessun riferimento, nessuna sfumatura; per immergersi nei suoni, negli odori, nei paesaggi, nelle luci. Una sorta di metodo Stanislavskij della traduzione. Ogni lavoro di Anna Nadotti è un vero e proprio incontro di mondi, tra inevitabile distanza e appassionata riappropriazione. Noi lettori tutte queste cose non le sappiamo, ma stiamone certi: le leggiamo. A lei dunque il Premio Pavese per la traduzione 202


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