Maurizio Cotrona “Il figlio di Persefone”

Maurizio Cotrona Maurizio Cotrona "Il figlio di Persefone" Elliot Edizioni

Maurizio Cotrona
“Il figlio di Persefone”
Elliot Edizioni

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Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre.
Sallustio

Il figlio di Persefone è la storia di due fratelli determinati a far chiudere l’Ilva di Taranto. In un’ambientazione mutevole – che tocca le coste ioniche, popolate dai miti della civiltà magno-greca, l’area industriale e i paesaggi metropolitani – si svolge l’iniziazione all’amore e all’odio di Giulio e Alessandro. Nelle loro fantasie infantili identificano lo stabilimento siderurgico con Ade, il signore degli inferi tornato sulla terra, le cui propaggini abbracciano, asfissiandola, la città che lo aveva accolto speranzosa. È lui il mostro che ha rapito la madre, dolce e dolente come una moderna Persefone, e fatto nascere Giulio con una menomazione al braccio. Ma ha anche dato ad Alessandro un talento che potrebbe trasformarlo nel suo più pericoloso nemico, l’unico in grado di distruggerlo. Queste fantasie crescono con i fratelli, seguendoli nell’età adulta, fino alla resa dei conti. Un romanzo dallo stile lieve ma affilato, nel quale l’autore trasfigura la nostra società attraverso un’immaginazione che si nutre di miti millenari per parlare di speranze e inquietudini contemporanee.

Maurizio Cotrona
Maurizio Cotrona è nato a Taranto nel 1973. Esordisce nel 2006 con il romanzo Ho sognato che qualcuno mi amava (Palomar). Nel 2011 pubblica Malafede (Lantana) e nel 2015 Primo (Gallucci HD). Coordina il laboratorio di scrittura creativa dell’associazione culturale “BombaCarta” ed è maestro della scuola di lettura per ragazzi “Piccoli maestri”.

“Solo una volta ho visto Alessandro perdere. Era giugno e avevamo nove anni. Mio fratello è undici mesi più grande di me, solo in giugno siamo coetanei. Ci eravamo trasferiti da un pezzo nella casa dove abbiamo trascorso la nostra infanzia. Mio padre l’aveva ereditata da uno zio e, quando si è trattato di decidere se rimanere in città o portarci lì, non aveva avuto dubbi: «C’è aria buona». In meno di due settimane aveva svenduto l’appartamento vicino all’acciaieria e speso il ricavato per ristrutturare quella che lui chiamava “villa”. La villa era una piccola masseria a pianta quadrata. Non aveva tetti spioventi, l’unico elemento decorativo era il colonnato di una terrazza al primo piano. Si trovava così vicina al mare che, nei giorni di vento, le onde si infrangevano sugli scogli e sollevavano spruzzi fino alle nostre finestre. Ci bastava attraversare un canneto sferzato dallo scirocco per raggiungere una scogliera ruvida, coperta da una peluria di alghe brune. La spiaggia di Saturo era lontana un centinaio di metri e, quella primavera, ci eravamo messi in testa che sarebbe stato bello averne una proprio sotto casa. Il nostro lido personale. Scegliemmo l’unico scoglio piatto di quel tratto di litorale e, usando dei sassi, costruimmo un argine che frenasse la risacca. Trasportammo sabbia per tutto il pomeriggio, rovesciandola a ridosso della barriera ma, secondo Alessandro, non era mai abbastanza e, all’ora di cena, mancavano almeno un centinaio di carichi perché potessimo spostare le pietre e lasciar passare il mare…”

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