Maria Cristina Cerrato “All’ombra di Caino”

Maria Cristina Cerrato
Pino Nazio
“All’ombra di Caino”
Storie di donne e di violenza
Sovera Edizioni

Dalla parte delle donne
di Maria Cristina Cerrato
“Quel lavoro mi piaceva abbastanza. Anni prima avevo iniziato il tirocinio presso uno studio legale che si occupava di diritto penale carcerario e mi ero iscritta nelle liste delle difese d’ufficio. Tra convalide di arresto e interrogatori venivo in contatto con imputati accusati di gravi reati nei cui confronti erano state applicate misure cautelari detentive. Un giorno d’estate, caldo più del solito, ero stata a Regina Coeli per il colloquio con un detenuto accusato di omicidio. “La classica fortuna della principiante”, aveva detto il mio collega di studio, riferendosi a quella nomina arrivata dal carcere. La corte d’Assise, dove si giudicano gli omicidi, era una bella vetrina per i giovani avvocati, occupati per lo più in reati minori come furti e piccolo spaccio di sostanze stupefacenti. Il detenuto che mi aveva nominata era un falegname rumeno accusato di un omicidio efferato, secondo l’ipotesi accusatoria il giovane, per motivi di denaro, aveva ucciso un italiano di sessanta anni, ex steward dell’Alitalia, che gli aveva commissionato alcuni lavori di falegnameria, colpendolo con ventisette colpi alla testa. Per me mantenere un atteggiamento freddo e controllato non era stato facile. Avevamo la stessa età, era la prima cosa cui avevo pensato trovandomelo davanti nella stanzetta dei colloqui. L’uomo proclamava la sua innocenza a gran voce, diceva che si trattava di un complotto ordito ai suoi danni per motivi inspiegabili. In realtà una sorta di inquietudine mi assaliva a ogni colloquio in carcere, qualcosa nel racconto dell’imputato non mi aveva mai convinta. Più volte avevo avuto la tentazione di spingerlo a confessare il delitto, senza mai riuscire a trovare la forza per farlo. Il processo, celebrato dinanzi alla corte di assise di Roma, si era concluso con la condanna del falegname a ventitré anni di reclusione. L’ultima immagine che ho conservato del mio assistito è quella di spalle, mentre le guardie carcerarie lo conducevano fuori dall’aula. Le sue impronte sul sangue non avevano lasciato dubbi sulla sua responsabilità. Aveva detto di essere innocente, e io gli avevo creduto. O meglio, avevo finto di credergli, come finsi di credere agli imputati che mi ritrovai ad assistere negli anni successivi.
Quella mattina Palazzo di giustizia era affollato, giudici, cancellieri, agenti di polizia penitenziaria, avvocati. Le udienze delle 9 stavano per cominciare e nessuno era ancora al suo posto, eccetto qualche testimone. Non avevo udienze, dovevo depositare una lista di testi e poi visionare un fascicolo alla cancelleria cen- trale per un processo il giorno dopo. Mentre attraversavo il cortiletto esterno mi si fece incontro una donna trafelata per chiedermi dove era l’aula sei dell’edificio A. Era una donna minuta e curata, sui quaranta anni e aveva indosso una chiassosa giacca a fiori. Dovevo andare anche io nello stesso edificio così pensai di accompagnarla. La donna si presentò, si chiamava Lucia, mi spiegò di essere lì per una denuncia che aveva fatto a suo marito un anno e mezzo prima. Mi porse un foglio che teneva stretto in mano, era la notifica per l’udienza di quel giorno. La guardai negli occhi, lessi la richiesta di rinvio a giudizio dove erano scritti i capi di imputazione a carico dell’ex marito. Nei dieci anni di matrimonio l’uomo, accusato di maltrattamenti e lesioni, le aveva fratturato il naso più volte e le aveva procurato lesioni al timpano con uno schiaffo. Lucia disse di essere terrorizzata all’idea di trovarselo davanti, mi chiese di aspettare insieme a lei. Quando venne il suo turno l’aula era quasi deserta e Lucia tirò un sospiro di sollievo perché si vergognava di parlare davanti ad estranei. Si trattava di una udienza preliminare, quelle che servono per capire se ci sono le condizioni per fare un processo. L’imputato non c’era e neppure il suo difensore che aveva rinunciato al mandato; per un problema di notifica il procedimento venne rinviato. Ci allontanammo dall’aula insieme e Lucia mi ringraziò per il tempo che le avevo dedicato perché sapeva che gli avvocati vanno sempre di fretta. Disse che non guadagnava molto con il suo lavoro a ore, timidamente mi chiese se potevo diventare il suo avvocato ma che non poteva pagare molto.
Le risposi di sì, senza pensarci su: mi avrebbe fatto piacere aiutarla al processo. Le dissi di non preoccuparsi del compenso e che poteva chiedere il gratuito patrocinio perché le vittime del reato di maltrattamenti possono usufruire dell’assistenza legale gratuita da parte dello Stato. Dopo averla salutata pensai che certe cose non accadono a caso e mi sentii bene all’idea di poter lavorare per lei. Prima di allora non avevo mai pensato all’opportunità di dedicarmi all’assistenza legale delle vittime nel processo penale, attività non meno impegnativa e necessaria di quella prestata in favore degli autori del reato. Scorsi le pagine del codice di procedura penale e mi resi conto di quanto poteva essere rilevante. La persona offesa attraverso il difensore ha il vantaggio di poter essere informata ed aggiornata sullo stato del procedimento nonché di sollecitare, attraverso memorie difensive, eventuali adempimenti investigativi e indicare persone utili da sentire in merito ai fatti denunciati. Assistere la vittima nel caso questa venga sentita con l’incidente probatorio durante le indagini e, in caso di pericolo, chiedere che venga applicata una misura cautelare per tutelarla dell’autore del reato. L’ingresso della parte lesa nel processo penale avviene con l’atto di costituzione di parte civile che trasforma la persona offesa in vera e propria parte del procedimento.

Ogni reato produce danno e sofferenza, le vittime di violenza domestica sono però particolarmente vulnerabili perché l’autore del reato è il proprio marito o compagno o un altro membro del gruppo familiare. A volte la violenza insorge sin dall’inizio della relazione, a volte in concomitanza con la nascita di un figlio, a volte dopo anni di rapporto. La donna non sempre ha la possibilità di cercare aiuto all’esterno e può resistere ai soprusi anche per molti anni sperando che l’uomo cambi, minimizzando le violenze che subisce. Proprio la decisione di separarsi o allontanarsi da casa, per salvare se stessa e i figli, rappresenta il momento di maggiore pericolo per la donna.
Due mesi dopo mi ritrovai al corso di formazione sulla violenza di genere per operatrici dei centri antiviolenza promosso dall’associazione “Differenza Donna”, nata nel 1989 con lo scopo di prevenire e contrastare la violenza di genere. Ritenevo questo percorso necessario per poter affrontare con la dovuta conoscenza e competenza la tutela legale delle donne vittime della violenza maschile. Il programma era intenso e ricco di questioni: la storia delle donne, i movimenti femministi, la metodologia e le pratiche dei centri antiviolenza, i miti e gli stereotipi di genere… La lezione in corso quella sera affrontava una delle questioni linguistiche più dibattute per la mancanza del titolo declinato al femminile: “Avvocata, avvocatessa, avvocato”. Nelle aule di giustizia mi era capitato anche che giudici e avvocati si rivolgessero a me sostituendo la qualifica professionale con il termine “signora”. Prima di quel giorno, anche se infastidita, non avevo dato peso alla cosa. Ora vedevo tutto in modo diverso perché la questione non era solo formale, come pensano in molti. Quelle lezioni erano state fondamentali, nessun intervento repressivo e sanzionatorio da solo poteva funzionare, era necessaria una rivoluzione culturale a partire dal linguaggio per approdare nelle aule di giustizia, in famiglia, nelle scuole. Così pensai che potesse essere un buon inizio cominciare a farsi chiamare “avvocata”.
In Italia negli ultimi anni il numero crescente di fatti di violenza maschile sulle donne ha prodotto il proliferare di eventi, iniziative, interventi dei media, catapultando il fenomeno nel dibattito pubblico. Molto spesso la televisione ha aperto la strada a interventi legislativi che hanno rinnovato un impianto culturalmente obsoleto. Nel 1979 la Rai mandò in onda, sotto forma di documentario, “Processo per stupro”, filmato all’interno del tribunale di Latina che ebbe una risonanza grandissima. Il processo testimoniava l’atteggiamento mentale che ispirava la strategia difensiva degli accusati di violenza carnale, evidentemente vincente, secondo cui l’atteggiamento sconveniente della donna, considerata moralmente responsabile, aveva provocato la violenza, mentre una donna di buoni costumi dedita alla cura della famiglia e devota al marito, non poteva essere violentata. L’avvocata Tina Lagostena Bassi, che nel processo era difensore di parte civile, sottolineò l’ulteriore violenza inferta alla vittima, inquisendo sui dettagli della sua vita privata, attraverso domande invasive tanto irrilevanti per screditare la sua credibilità, trasformandola in imputata. Si trattava di Fiorella, una ragazza di diciotto anni che denunciò per violenza carnale un gruppo di quattro uomini tra cui un suo conoscente, Rocco Vallone. La ragazza, lavoratrice in condizioni precarie, raccontò di essere stata invitata dall’uomo in una villa a Nettuno per discutere di una proposta di lavoro come segretaria e di essere stata sequestrata e violentata per un pomeriggio dallo stesso e da altri tre uomini. Tutti gli imputati al momento dell’arresto ammisero le violenze, per poi ritrattare successivamente, dichiarando che i rapporti sessuali erano avvenuti dopo avere concordato con la ragazza un compenso di duecentomila lire. Il Tribunale di Latina condannò tre degli imputati alla pena di un anno e otto mesi di reclusione e uno alla pena di due anni e quattro mesi. Tutti beneficiarono della sospensione condizionale e furono subito rilasciati. Furono condannati a risarcire il danno alla vittima quantificato in due milioni di lire.
A distanza di tempo, anche se molto è cambiato nella legislazione a tutela delle donne, persiste una mentalità discriminatoria per cui la donna è ritenuta responsabile e causa della violenza che subisce: ancora oggi accade che le donne che denunciano una violenza faticano a essere credute. Emblematico quanto accaduto nel 2007 alla ragazzina quindicenne stuprata a turno da otto coetanei nella pineta di Montalto di Castro vicino alla festa dove si era recata, colpevolizzata ed etichettata come ragazza facile perché indossava la minigonna mentre ai responsabili della violenza il sindaco ha addirittura pagato le spese processuali con il denaro delle casse comunali. Agli accusati, tra i quattordici e i diciassette anni, il tribunale dei minori ha concesso la messa alla prova con affidamento ai servizi sociali.
Le spinte dell’opinione pubblica e la crescente sensibilità a livello istituzionale hanno portato il governo a ratificare la convenzione internazionale di Istanbul e ad adottare la legge 119 del 2013 oltre a politiche di contrasto alla violenza di genere, incluso il piano nazionale antiviolenza. La Convenzione, dell’undici maggio 2011 del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica è entrata in vigore il primo agosto 2014.
È il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che propone un quadro normativo completo e integrato a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza domestica. La finalità primaria della Convenzione è la creazione di un’Europa libera dalla violenza contro le donne ponendo come presupposto per la realizzazione di tale obiettivo il raggiungimento della piena uguaglianza formale e sostanziale.
Si compone di un preambolo e di ottantuno articoli raggruppati in dodici capitoli.
Affermando che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere è un elemento chiave per prevenire la violenza, viene riconosciuta la natura strutturale del fenomeno quale “manifestazione di rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”.
La sua struttura è basata sulle tre “p”: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli. Di fondamentale importanza l’aspetto preventivo che impone di adottare misure necessarie a promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati delle donne e degli uomini. Nel prevedere la necessità di politiche globali e integrate per affrontare il problema della violenza maschile sulle donne, la Convenzione riconosce un ruolo determinante delle associazioni di donne impegnate sul tema. La Convenzione ha poi il merito di dare una serie di definizioni su cosa debba intendersi per violenza. Con l’espressione violenza nei confronti delle donne si intende designare “una violazione dei diritti umani e una forma di discrimina- zione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.
A tale definizione comprensiva si riferisce poi l’autonoma categoria della vio- lenza domestica, “inclusiva di ogni genere di condotte di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare e tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
Viene data per la prima volta una definizione del concetto di “genere” che, diversamente dai termini uomo e donna, ne sottolinea la natura sociale riferendosi: “a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”.
Viene prestata particolare attenzione al ruolo dei media e della comunicazione, laddove si stabilisce di incoraggiare i media a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.
Tutto questo però non ha portato alla diminuzione delle violenze e dei femminicidi che continuano a colpire le donne da nord a sud del paese. Come già emer- so dal rapporto di Rashida Manjo, relatrice Onu per i diritti delle donne, la violenza di genere in Italia, al pari di altri paesi, rimane un problema significativo per la prevalenza nella società di modelli stereotipati che accrescono le discriminazioni e favoriscono contesti di oppressione in cui si coltiva la violenza. Gli stupri di Rimini, Firenze e Roma, che hanno riempito le cronache estive del 2017, mettono ancora oggi in evidenza l’incapacità dello Stato di rispondere in maniera adeguata alla violenza, nonostante l’Italia sia dotata di un buon impianto normativo in materia. Il problema non sono le leggi ma la loro applicazione. E pensare che in Italia, solo fino a pochi anni fa, esisteva una norma incivile e arcaica come il matrimonio riparatore. La doppia violenza del matrimonio riparatore fu smascherata, per la prima volta, nel 1965 grazie al coraggio di una diciassettenne siciliana, Franca Viola, figlia di contadini di Alcamo. A quindici anni con il consenso dei genitori si era fidanzata con Filippo Melodia, rampollo di un mafioso locale, ma, in seguito al suo arresto per furto ed appartenenza a bande mafiose, il padre della ragazza, Bernardo Viola, rompe il fidanzamento. L’uomo non si rassegna e leso nel suo onore di maschio fa di tutto per riavere la ragazza iniziando una serie di minacce e intimidazioni contro tutta la famiglia. Nonostante tutto Franca non cede. Così l’uomo, insieme a dodici complici, il ventisei dicembre 1965 si reca dai Viola, devasta l’abitazione, malmena la madre e rapisce Franca e il fratellino di otto anni che viene rilasciato la sera stessa. Franca rimane segregata per otto giorni prima in un casolare di campagna e poi in casa della sorella di Filippo. Durante la prigionia viene ripetutamente violentata dall’uomo oltre che umiliata e derisa. Il giorno di capodanno i parenti di Melodia raggiungono i Viola per la paciata, una sorta di intesa tra le famiglie che secondo la consuetudine, di fronte al fatto compiuto, avrebbero dovuto concordare le nozze. I genitori della ragazza, d’accordo con la polizia, finsero di accettare l’accordo. Il giorno dopo la polizia fa irruzione nell’abitazione, libera Franca e arresta i rapitori. Melodia e i suoi sono ancora convinti di rimanere impuniti con le nozze. Il lieto fine sarebbe stato il matrimonio riparatore previsto dalla legge italiana come “ristoro” per la violenza sessuale. Franca Viola, una volta liberata, rifiutò le nozze riparatrici e denunciò il suo rapitore ed i suoi complici. Il fatto sconvolse l’opinione pubblica e divenne un caso nazionale. Il rifiuto delle nozze riparatrici da parte di una donna disonorata (non più vergine), il primo nella storia, creò un precedente seguito da molte donne, anche se il matrimonio riparatore sarà cancellato solo nel 1981. Malgrado le difficoltà e le intimidazioni Franca Viola, con il sostegno del padre, affrontò il processo che venne celebrato a Trapani. Per Filippo Melodia il pubblico ministero chiede ventidue anni di pena. La difesa tenta in tutti i modi di screditare la ragazza sostenendo che era consenziente alla fuga d’amore così come ai rapporti sessuali e che la fuitina aveva lo scopo di mettere la propria famiglia di fronte al fatto compiuto. Si discute sulla moralità della ragazza che secondo la difesa non era più vergine al momento del rapimento perché avevano consumato rapporti a casa di lei mentre i suoi erano in campagna. Franca è presente ad ogni udienza, seduta di fianco al suo avvocato. Dopo sette ore di camera di consiglio Melodia è condannato a undici anni di pena, riconosciuto responsabile per i reati di violenza carnale, violenza privata, lesioni, minacce a scopo di matrimonio. Bisognerà aspettare ancora sedici anni perché il matrimonio riparatore venga cancellato dalla legge n. 442 del 1981 arrivata alla fine di un lungo percorso di cui fanno parte il referendum sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia e il referendum sull’aborto. Dovremo attendere fino al 1996 perché lo stupro non venga più considerato “reato contro la morale” ma reato “contro la persona”.
Non basta qualificare un comportamento come reato per debellarlo, inasprire le pene, puntare solo sull’aspetto repressivo. Occorre adottare un approccio di genere che punti sull’aspetto preventivo, valorizzi il ruolo fondamentale dei centri antiviolenza, il lavoro concreto di una rete di sostegno di servizi e istituzioni in- torno alle vittime, l’educazione alla differenza di genere da impartire nelle scuole, una corretta informazione da parte dei media.
Le storie raccontate in questo libro appartengono a donne che provengono da esperienze difficili e tormentate. In tante sono fuggite dalla violenza, in tante hanno riacquistato la libertà.”

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