Conversazione di Livio Partiti con Paolo Collini "Festival dell'Economia"
Quando
mio figlio ha cominciato a guardarmi dall'alto in basso, ho avuto la
netta sensazione di avere perso sovranità. Ho capito che, da quel
momento in poi, avrei potuto appellarmi solo alla mia statura morale per
convincerlo a scendere a comprare il giornale all'edicola. Oppure avrei
dovuto sottostare al ricatto di comprare anche un giornale di suo
gradimento assieme a quelli da me prescelti. Ma ben presto mio figlio ha
cominciato a commentare le notizie del giorno. E non solo quelle di
sport. Avevo così il giornale a domicilio, un'eccellente rassegna stampa
e un quotidiano sportivo da sfogliare. Tutto in un colpo. Ci possono
anche essere vantaggi nel perdere sovranità. Dipende da come e verso chi
la si perde.La crisi ha fatto
rimpicciolire molte sovranità nazionali. Molti re si sono scoperti
terribilmente piccoli ancora prima che nudi. Governi nazionali sono
dovuti intervenire per salvare istituzioni finanziarie che erano fino a
10 volte più grandi di loro. Hanno scoperto, loro malgrado, che l'unico
modo per affrontare il problema era quello di gestire la crisi (e gli
aiuti) assieme ad altri paesi, rinunciando a un pezzo della loro
sovranità per magari non perderla del tutto, travolti dal fallimento di
istituzioni molto più grandi di loro e che non potevano lasciar fallire
senza fallire essi stessi.
I
cittadini dei paesi della crisi del debito nella zona euro si sono
sentiti privati di sovranità di fronte alla dittatura dello spread. Ma
come, si sono detti, perché ci facciamo imporre tasse più alte e tagli
alla spesa pubblica da persone e istituzioni che magari non sono mai
venute in Italia, che non hanno mai pagato i tributi? Il sostegno di
Angela Merkel non ha certo giovato a Nicolas Sarkozy in occasione delle
elezioni presidenziali francesi. L'endorsement dei leader europei non è
stato di alcun aiuto, per usare un eufemismo, a Mario Monti, in una
campagna elettorale in cui è stato spesso agitato lo spauracchio da lui
stesso evocato due anni fa, quello di un podestà straniero, di una
nostra perdita di sovranità.
A
Cipro, in Grecia, Spagna e Italia sono molto popolari politici che si
battono per l'uscita dei loro paesi dall'euro. Sostengono che così
finiremmo di essere schiavi dello spread e potremmo finalmente svalutare
per diventare più competitivi e per tornare a crescere. Non dicono che
così lo spread tenderebbe all'infinito perché il ripudio del debito
inevitabilmente associato all'uscita dall'euro e alla svalutazione
porterebbe alla fuga di capitali e non avremmo più nessuno al di fuori
del nostro paese disposto a comprare i nostri titoli di stato.
L'unione
monetaria è nata come scelta volontaria e cosciente di governi sovrani,
di privarsi di autorità nella conduzione della politica monetaria. Come
Ulisse si era fatto legare le mani all'albero maestro per resistere al
richiamo delle sirene, così i governi hanno voluto privarsi della
possibilità di decidere in proprio, meglio a lasciar decidere a una
banca centrale nazionale, quanta inflazione tollerare, se lasciare
svalutare la propria moneta, a che tasso dare prestiti alle banche. Lo
hanno fatto perché pensavano di poterci guadagnare, riuscendo a
resistere meglio alle pressioni delle lobby dei debitori che premevano
per un più alto tasso di inflazione e a ridurre gli oneri di servizio
del debito pubblico.
Una
delle lezioni della crisi è che non basta una politica monetaria comune,
anche quando questa si spinge molto al di là del seminato, nell'ambito
di una unione monetaria. Ci vuole anche maggiore coordinamento nella
politica fiscale e nella supervisione delle banche a livello
sovranazionale. Potremo, come nel caso della BCE, affidarci anche per
queste funzioni a una tecnocrazia? Oppure dobbiamo progettare organismi
sovranazionali che abbiano una qualche investitura democratica? I
tecnici dovrebbero forse limitarsi a gestire le autorità di controllo, a
partire dal Fiscal Council che vigilerà sul rispetto delle regole
fiscali comuni (il Fiscal Compact), ma è sbagliato pensare che un
esecutivo comunitario che gestisce un bilancio comune non sia
eminentemente un organismo di tipo politico. Il problema è la scala,
nazionale o sovranazionale, sulla quale l'operato di questi politici
verrà valutato.
Al di là del
caso delle unioni monetarie ci sono molti altri contesti in cui
decisioni fondamentali nel determinare il grado di benessere dei
cittadini possono essere prese solo se i diversi soggetti coinvolti
rinunciano ciascuno a un po' di sovranità. Viene da chiedersi se sono
poi vere rinunce di sovranità quelle imposte dal governo multilaterale
di fenomeni, come l'inquinamento atmosferico, che influenzano diverse
giurisdizioni, travalicando gli stessi confini nazionali. O si tratta
invece dell'unica sovranità possibile? E come si può ridurre il rischio
che nella gestione di risorse comuni ci siano comportamenti
opportunistici da parte di singoli Stati?
Esiste
molta letteratura economica che si occupa di questi temi. La crisi
dell'eurozona ha reso questa letteratura di grande attualità e ha
avviato molti nuovi lavori a cavallo tra la finanza e la macroeconomia.
Cominciano anche a esserci studi, ai confini fra economia, sociologia e
scienze politiche, sulla formazione di una élite e classe dirigente in
grado di governare processi globali. L'emergere di questa classe
dirigente è fondamentale per evitare che le tensioni sulla sovranità
degenerino in conflitto. La storia ci insegna quanto il rischio che si
passi dalla cooperazione al conflitto sia tutt'altro che remoto,
soprattutto dopo lunghe crisi economiche come quella che stiamo
attraversando. Il contributo degli storici economici sarà molto
importante anche in questo festival, nel ripercorrere la formazione di
federazioni a partire da Stati-nazione, dall'esempio di Hamilton alla
genesi della federazione australiana.
Tito Boeri
responsabile scientifico
del Festival dell'Economia
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