“Resti”
Mostra di Elena Modorati
Sabino Maria Frassà, curatore della mostra
Gaggenau Hub – Milano
Mostra aperta fino al 26 Febbraio 2021
Gaggenau DesignElementi Hub, Corso Magenta 2, Milano
Info: 02 29015250
La mostra è aperta, su appuntamento, dal lunedì al venerdì
infocramum@gmail.com
L’arte maieutica nei resti di Elena Modorati
Testo critico di Sabino Maria Frassà, curatore della mostra “Resti”
“C’è solo un mezzo per superare la frontiera: consiste nel far passare qualcuno davanti a sé. Prendendo il sacco di tela, camminando sulle tracce dei passi, poi sul corpo inerte di nostro padre, uno di noi se ne va nell’altro paese. Quello che resta torna a casa di nonna”.
Agota Kristof, Quello che resta, 1956
Cera, carta seta, carta riso e ancora cera. Sono tanti gli strati che compongono le opere di Elena Modorati. Se Fontana squarciava la tela alla ricerca dell’infinito, Elena Modorati supera il finito coprendo strato dopo strato ciò che lei stessa ha scritto e disegnato. Le sue opere stratificate danno forma a una sorta di ritrovata memoria universale in grado di conservare traccia di tutta l’umanità. Le fragili ed effimere opere di Elena Modorati fanno riemergere ciò che ci accomuna e ci rende “simili”: la consapevolezza di sé, dei propri limiti, ma anche la grandezza e la dignità del singolo come base fondamentale del “tutto”. L’artista diventa così la narratrice o meglio lo “strumento” per narrare l’ambiguità dell’esistenza umana in bilico tra finito e infinito, tra unicità irripetibile e caducità, tra fede e scienza.
Alla base dell’infinita stratificazione propria delle opere di Elena Modorati c’è il concetto di “resto”, inteso come ciò che rimane, in opposizione a ciò che se ne va, perché si consuma o perisce. Ciò che resta di noi – sia esso l’insieme di beni tangibili, opere dell’ingegno, ricordi o prole (biologica e non) – può essere inteso come un piede di porco per scardinare i limiti temporali e fisici della nostra esistenza e accedere all’eternità, portando il nostro “personale” passato per sempre nel futuro. L’artista si spinge addirittura oltre e intende come “resti” tutto ciò che è stato, a prescindere che ne sia rimasta conoscenza, consapevolezza o traccia nel presente. E così a ben pensarci il nostro presente, è il risultato di una densa stratificazione di resti di tutta l’umanità che ci ha preceduto, che non sempre riusciamo del tutto a comprendere, così che la comprensione del presente e di ciò che ci succede ci appare confusa, come la nebbia spesso evocata dalle opere di Elena Modorati. Il momento che viviamo, l’ <
Ciò che manca in un oggi carico di individualismo eudonistico, in cui si cerca di avere vent’anni fino alla propria morte, è l’interiorizzazione che nell’accettazione dei propri limiti sia insita questa eroica possibilità di far parte consapevolmente di un tutto al di là di noi. Vero ò che il prezzo di tale accettazione non è secondario dal momento che comporta l’accettare definitivamente che la propria individualità non sopravviva all’infinito nel tempo. L’artista sembra suggerire che, se non rimarrà il ricordo nitido della nostra esistenza o di ogni istante da noi vissuto, sopravviverà e riemergerà – prima o poi – il senso più profondo di ciò che siamo stati. In tutte le opere di Elena Modorati coesistono così tanto il ruolo del singolo quanto la sedimentazione dei resti dell’umanità. Non a caso i singoli “strati” – resti – che compongono le opere sono raramente intelligibili singolarmente. Nel vivere queste opere si somma alla fascinazione un desiderio quasi infantile di scavare letteralmente nella cera, protagonista della maggior parte dei suoi lavori, per appropriarsi e comprendere pienamente cosa ci “sia” celato all’interno. Come nel caso del celebre ciclo dei Calendari, in cui l’opera finale è una sorta di diario che non si può più aprire, l’artista nega allo spettatore la possibilità di conoscere cosa ci sia scritto e non ne conserva lei stessa traccia né ricordo. La frustrazione – prima – e l’accettazione – poi – di tale mancanza di piena conoscenza sono in fondo il senso più profondo dell’opera: come avviene con i calendari dell’avvento, la gioia non dovrebbe risiedere nel possedere il dono custodito in ogni singola casella quanto nel calendario stesso. Il dono è il trasformare la vita da un’attesa dell’ineluttabile in una gioia del godere consapevolmente del singolo momento. Walter Benjamin, autore molto amato dall’artista, scriveva: “Il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. Un grano di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana, e quanto del giorno feriale vi è in questa domenica”.
Le opere di Elena Modorati, stimolando e richiamando all’umiltà, risolvono in modo propositivo il nichilismo socratico del “sapere di non sapere”: se da un lato so di non poter sapere, dall’altro sono consapevole che la mia singolarità è un granello di sabbia che fa la differenza in quel tutto a cui non possiamo che appartenere. La ricerca artistica di Elena Modorati finisce quindi con l’essere maieutica e sollecitare lo spettatore a ritrovare in sé stesso l’universale a cui ognuno atavicamente aspira. Possiamo accostare i resti di Elena Modorati a quelle forme universali che Jung definì archetipi, Warburg “pathosformel” e Benjamin “immagine di verità”; sono in noi viscerali e presenti da sempre: per quanto l’essere umano si sia evoluto ama, odia, e ha ancora le stesse irrisolte paure degli uomini delle grotte di Lascaux. Come testimonia un recente corpo di opere intitolato “Capricci”, in cui l’artista ha realizzato delle teche con all’interno modelli di resti antichi del tutto inventati, l’arte e l’analisi dei “resti” ci portano inevitabilmente a riconsiderare la stessa concezione crono-logica di tempo. In modo coerente con l’interpretazione del materialismo storico proposta da Benjamin, Elena Modorati rappresenta il tempo non come una retta all’infinito, ma in modo circolare o informe: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’”adesso” in una costellazione”. Possiamo quindi vedere in questi “Capricci” il perfetto ritratto di chi siamo e del tempo “neo” barocco in cui viviamo: un capriccio in cui l’ingegno umano fatica a piegarsi ed accettare la grandezza della propria finitezza di fronte a quell’infinito ritorno di cui ha la fortuna di far parte.
Elena Modorati è nata a Milano, dove vive e lavora, nel 1969. Si è laureata in filosofia all’Università degli Studi di Milano. Collabora con Cramum dal 2014 prendendo parte a due importanti mostre curate da Sabino Maria Frassà: Pulvis Es nel 2014 e Il cielo sopra di me e dentro di me che cosa? nel 2019.
Fra le esposizioni più recenti si ricordano: Le supermarché des images, nel 2020, Jeu de Paume, Paris, a cura di Peter Szendy, Emmanuel Alloa e Marta Ponsa; Pan oren, nel 2019, Il Milione, Milano, a cura di Federico Sardella; Paia, nel 2018, Progettoarte Elm, Milano, a cura di Marco Meneguzzo; Anything, sempre nel 2018, Italian Insitute of culture, Mexico City, a cura di Raffaella De Chirico; Kairos, nel 2017, Musée d’art contemporain Arteum, Châteneuf-le-Rouge, Aix-en-Provence, a cura di Christiane Bourbon e Arafat Sadallah; Sotto un altro cielo, nel 2016, galleria San Fedele, Milano, a cura di Andrea Dall’Asta e Matteo Galbiati; BAG Bocconi Art Gallery, nel 2014, università Bocconi, Milano.
Nel 2014 immagini di suoi lavori hanno corredato il numero monografico (In)actualités de Derrida della rivista “Rue Descartes” in occasione del decennale della morte del filosofo. Sue opere fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private tra cui la collezione di Palazzo Ducale, Gubbio e della Pinacoteca di Monza.
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