Giulio Busi “Michelangelo”

Giulio Busi Giulio Busi "Michelangelo" Mondadori Editore

Giulio Busi
“Michelangelo”
Mito e solitudine del Rinascimento
Mondadori Editore

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Da: Il Sole 24 Ore – domenica 29 ottobre 2017
di Giulio Busi

Ammirato da quasi tutti, strapagato da chi può permetterselo, straodiato da chi non riesce a emularlo, “il divino Michelangelo” impersona, già per i suoi contemporanei, il modello da imitare, il rivale da battere, la guida da venerare. Ha un caratteraccio, non si fida di nessuno, è attaccatissimo al soldo. Ma può esser anche generoso, modesto, affettuoso. Michelangelo è il primo artista che entra, ancor vivo, nel mito. Con lui comincia la modernità: l’arte s’impossessa della vita, la consuma, la redime.

La sua esistenza è rabbiosa, a volte meschina, di tanto in tanto grande. Grandissima è l’arte, irata anch’essa, eroica. Fiamma che sale obliqua, brucia quel che trova. Fiamma lucente del giorno, e fiamma notturna, compassionevole.

I suoi grandi biografi cinquecenteschi, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi, in competizione acerrima l’uno con l’altro, fanno la gara per consacrarlo nell’empireo artistico. Senza maestri, senza rivali, senza amici. La solitudine è l’alone che l’accompagna fin da subito, lo protegge, l’innalza. È talmente inarrivabile che può permettersi il lusso di appartarsi, esser scostante, asociale. Salvo decidere di attrarre e incantare chi gli vada a genio, se e quando vuole.

Preferisce gli umili ai gran signori, anche se sa mettere soggezione persino ai papi. Nei momenti di orgoglio, e sono molti, non vuol esser chiamato scultore o pittore. Si considera un cittadino di nobili natali, prestato all’arte, costretto controvoglia a penare con scalpelli e pennello. Non è una facciata, questa del decoro e della rispettabilità sociale. È nato da una famiglia antica e impoverita, e risalire la china, guadagnare, metter da parte, comprare, investire è una delle missioni della sua esistenza. Quando muore, ha ammassato una fortuna immensa. Nella sua casa malandata, gli eredi trovano una somma strabiliante in contanti, equivalente a quasi 30 chili d’oro.

Una vita così sarebbe facile da raccontare. Troppo facile. Fate la somma di tutti i suoi giorni, delle lettere, delle poesie – moltissime e mai pubblicate in vita. Aggiungete il fulgore delle statue, l’azzardo degli affreschi, le architetture senza paragone. Sommate quel che potete e vedete, e ancora Michelangelo non l’avrete trovato.

È meglio dirselo adesso, prima di cominciarla, questa vita-storia. Per tutto il libro, avremo a che fare con un fuggitivo.

Michelangelo cercherà di scapparci, pagina dopo pagina. Si nasconderà, come faceva, nella realtà, dietro i muri posticci, levati attorno ai suoi capolavori. Costruiti, tutte le volte che è possibile, per scolpire o dipingere in pace, al riparo dagli sguardi di papi e di cittadini, di maestri e d’incompetenti, di amici e di clienti. Se si confida con qualcuno, lo fa con sospetto, tra mille cautele. Scomparirà tra le sue poesie, corrette e ricorrette fino allo stremo, versi tormentati, rigirati, cancellati, tra disegni, abbozzi, note, un oceano di carte, di ripensamenti, di sconforti e d’entusiasmi. Sarà difficile sapere dove sia veramente, cosa lo angusti, per chi s’infiammi.

Michelangelo vince anche se lascia a mezzo. Quando porta a compimento suscita meraviglia, e ancor più fa scuola con il suo non finito. Non finita la creazione artistica, e soffertamente incompiuto l’uomo. «A me non finito», scrive in un suo sonetto, facendo di sé stesso lo specchio dell’incompletezza umana. È lì, sulla soglia tra comprensione e dubbio, tra perfezione e difetto, che riusciremo a incontrarlo. Non a lungo, però, perché Michelangelo è schivo. È la sua opera che parla. Per tutti, per chi vuole ascoltarla, per chi la può capire, e anche per gli svogliati e gli sbadati.

Michelangelo dietro il muro è anche questo. Un uomo che si fa schermo delle piccolezze quotidiane, sciorina scialbe preoccupazioni contabili, lui ormai così ricco. E nello stesso giorno in cui annota affari, debiti e crediti, costringe la pietra a farsi corpo, volto, braccia, spasimo, come non ha ancora osato nessuno. Se è così, se piccolo, persino meschino, e grande, grandissimo, non si possono districare, se polvere della pietra, fatica di stendere il colore e invenzione senza limiti sono unite, mescolate, indistinguibili, se Michelangelo è taccagno e genio sullo stesso foglio, in un sol giorno, dovremo abituarci a guardare meglio, aguzzare l’ingegno e non dar retta a chi vorrebbe mettere la materia d’un lato, in compagnia del solito corteo di bassezze – soldi, masserizie, cave, scalpelli, sudori – e tenere poi in serbo, al sicuro, spirito, arte pura, genio, che non si contaminino, per carità.

Forse la nostra scoperta, ricompensa di tanto attendere, è che piccolo e grande sono, in Michelangelo, due modi per dire la stessa cosa. Qualche volta – oltre che schivo, l’uomo può esser dispettoso – anche il grande è espediente per eclissarsi, sfuggirci, lasciarci con un palmo di naso. Ne volete la prova? Cercatelo nel sublime, vedete che fatica farete a scovarlo e, soprattutto, a tenerlo fermo. Si dice che sia platonico, anzi neoplatonico secondo la moda di Firenze, segnato per sempre dall’aria rarefatta che si respirava attorno a Lorenzo il Magnifico, il suo primo, inarrivabile protettore. Michelangelo spregiator del corpo, teso a uscire dal carcere della vita, a incielarsi.

Come la mettiamo, allora, con quei suoi nudi eloquenti, provocanti, con la fisicità imperiosa che sa cavar dal marmo, che fa sprigionare dagli affreschi? Pittore di carne, di desiderio, di sensualità. «L’inventor delle porcherie […] Michelangniolo Buonarruoto», lo chiama, nel 1549, un avversario, bigotto e scandalizzato. La verità è che lui, il divino e divinamente imprendibile, si diverte a confonderci, non ne può fare a meno. Quando credi d’averlo messo alle strette, ti disegna un ghigno, scolpisce un ebbro, colora una Sibilla, e la fuga ricomincia. Vuoi una Madonna in là con gli anni? Te la scolpisce ragazzina. Ti aspetti un Cristo emaciato? Ti sorprende con un atleta che si è strappato dalla croce, e l’ha ridotta a pezzi, tanto è forte.

A volte sembrerebbe tutta sobrietà e misticismo, avversario dei papi guerrieri e dei Medici corruttori. Un savonaroliano di ferro, insomma, per sempre segnato dalle prediche del frate, ossuto e visionario, che aveva ascoltato da giovane a Firenze. È vero che ad allievi e seguaci del domenicano Michelangelo sarà vicino negli anni della maturità, e che una profonda vena religiosa corre nella sua opera, ma mentre Savonarola sale, domina e poi precipita nel rogo, si guarda bene dal restargli al fianco. In quei tempi è a Roma, al servizio dei nemici giurati dell’inflessibile fustigatore della nuova Babilonia, e sembra star benone in compagnia di cardinali e curiali.

Ricordatevi del limite, della soglia. C’è un punto in cui Michelangelo ha un piede nel piccolo, nel quotidiano, nell’affanno, nel desiderio. L’altro piede tocca il vuoto, sollevato, incerto se sostenersi o cadere.

Lì, con un po’ di fortuna, potremo parlargli. È una posizione scomoda, difficile, precaria. Appunto per questo, è l’unica possibile.

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