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Fabio Strinati “Dal proprio nido alla vita”

Fabio Strinati, Dal proprio nido alla vita, Edizioni Il Foglio Letterario

Fabio Strinati
“Dal proprio nido alla vita”
Edizioni Il Foglio

ilfoglioletterario.it


Ho sempre desiderato essere una rondine.
Una rondine è bianca pallida, educata, gentile, affabile…
una rondine è elegante, e vede il cielo (il suo cielo)
come un aldilà facilmente raggiungibile, anche se distante.

Da qualche anno si è affacciato al mondo della poesia in maniera attiva, originale e sperimentale, pubblicando, sempre attraverso Il Foglio letterario, Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo (2014), Un’allodola ai bordi del pozzo (2015) e, da ultimo, Dal proprio nido alla vita, uscito nel 2016, con la prefazione di Gordiano Lupi, editore, scrittore e traduttore. Proprio sulla nuova opera di Strinati nascono queste mie note di lettura che condivido oggi coi lettori di Oubliette Magazine.
La genesi del libello Dal proprio nido alla vita, collana I Tascabili di EIF, viene dichiarata in prefazione da Gordiano Lupi e, in stralcio dalla prefazione, anche in quarta di copertina, per poi essere ribadita dall’Autore stesso in apertura dell’opera, un “Poemetto ispirato interamente e totalmente a Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi”.
Anche qui, come in Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi, numerose fotografie in bianco e nero, anche un animale che assurge a simbolo di umane velleità e possibilità, non compiute: lì il gabbiano, qua la rondine.

Dolenti tematiche esistenziali sono comuni, certo, sebbene trattate con differenti modalità, sensibilità e maturità letterarie.
La lettura è, a volte, faticosa, per il ritmo rotto, continuamente franto dalle virgole che, sempre, separano soggetto e verbo, talora oggetto e predicato verbale. Si ha l’impressione di una continua oscillazione di stati d’animo che seguono una tensione continua tra l’orizzonte della fanciullezza e dell’adultità, che sfocia nell’impressione di un suo troppo rapido superamento in una vecchiaia interiore pesante e soffocante.
Tale senso d’indecisione, indefinitezza e insoddisfazione è palese nelle infinite occorrenze dei puntini di sospensione, presenti in ogni pagina, a volte in numero di tre, altre volte addirittura quattro.
Siamo di fronte a un difficile e doloroso percorso di crescita, di maturazione, attraverso un viaggio personale (“scrivere su carta la mia anima” è ciò che il poeta dichiara di voler fare) che utilizza la scrittura come mezzo per approfondire la conoscenza di sé, esorcizzare le proprie paure, focalizzare passioni, sogni e speranza.

Fabio Strinati
Difficile stare dentro il ritmo/non-ritmo fatto quasi di singulti, rimpianti, dolorose visioni a metà tra il ricordo, il sogno e veglia. Come tenere, allora, il filo del discorso di questo breve poemetto, che ci pare più vicino all’andamento prosastico di un flusso ininterrotto di coscienza che a un dire di tipo lirico, se questo è inteso in modo tradizionale?
L’autore ricuce i vari quadri ricorrendo alle ripetizioni anaforiche, che divengono quasi parossistiche in alcuni tratti, atte a fungere da anello di congiunzione tra ciò che è stato, che è e ciò che costituisce l’orizzonte dei sogni: un anelito al volo e alla poesia come terapia dalla vita dura e crudele, con uno sguardo e un orecchio sempre tesi alla Natura, bella, forte, accogliente, consolante, a volte, comunque giusta.
“Le persone si muovono nel tempo” e tutto è un susseguirsi di stagioni – delle quali più bella e desiderabile appare la Primavera – e dalla fanciullezza alla maturità è un solo passo. Da qui uno scollamento una sensazione di inadeguatezza, un sentirsi “strano, perso, spaesato” spesso inseguito dai ricordi ficcanti e dolorosi.
È la presa d’atto del “definitivo passaggio tra una giovinezza ormai perduta, e un dolore acquisito”, ma non è certo la fine di questo viaggio sulle ali del vento.
Katia Debora Melis – fonte oubliettemagazine.com


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