Anna Maria Ortense
“Le piccole persone”
a cura di Angela Borghesi
Adelphi
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell’uomo «contro la Terra», la sua «cultura d’arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d’allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l’uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l’universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull’unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.
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Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914. Sentirà sempre la mancanza di radici e le troverà, nel sogno anziché in veri ricordi, a Barcellona e Carrara, le città dei nonni paterni e materni. Il padre porta la famiglia ad errare per vari luoghi, fino a Tripoli, dove i ragazzi trascorreranno la maggior parte dell’infanzia. Lei abbandona la scuola a quattordici anni, ma studia solitaria sui libri del fratelli, imparando da sola il francese e lo spagnolo. Tornati in Italia, i giovani maschi Ortese fuggono lontano, chi in America, chi in Australia.
Vorrebbe diventare maestra di pianoforte, ma un fratello muore in mare in America, e lei sceglie di sostituire al pianoforte la macchina da scrivere. Non si sposerà mai – “sono sempre stata sola, come un gatto”. Scrive per sé, giorno dopo giorno, per tenere a bada l’angoscia. “Si scrive perché si cerca compagnia, poi si pubblica perché gli editori danno un po’ di denaro”.
La sua è una vita di dolore e di povertà, quando non di vera indigenza, riscattata dal sogno e dall’immaginazione. Figura appartata, aliena dalle frequentazioni che favoriscono la notorietà e le buone recensioni, Anna Maria Ortese ottiene anche riconoscimenti (il Premio Strega nel 1967), ma raggiunge il successo solo quando negli anni ottanta un editore alla moda, Adelphi, porta al successo alcune opere tardive, che nulla aggiungono a quanto Ortese aveva già scritto.
L’opera chiave resta il romanzo breve L’Iguana (del 1965): tenera e misteriosa favola, e allo stesso tempo smascheramento del romanzo esotico-ispanoamericano che viveva in quegli anni il suo boom.
Adelphi meritoriamente ripubblica le vecchie opere. Tra queste L’Iguana, che 1988 appare anche in francese, presso Gallimard. In quella occasione, eccezionalmente, Anna Maria Ortese accetta di farsi intervistare da Le Monde. Quando l’intervistatrice arriva nella modesta casa di Rapallo, dove da dieci anni vive in compagnia della sorella più anziana, la scrittrice si è già pentita, ed esordisce dicendo: “Non ho più niente da dire”. Morirà nel 1998.
Angela Borghesi insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Bicocca di Milano. Ha pubblicato monografie su Giacomo Debenedetti e Francesco De Sanctis, e saggi su autori del Novecento.
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