Umberto Galimberti “Tra la mia ragione e la mia follia ci sei tu”

Umberto Galimberti Umberto Galimberti, Circolo dei Lettori, Torino

Umberto Galimberti
“Tra la mia ragione e la mia follia ci sei tu”
In Nome dell’Amore 2
Circolo dei Lettori, Torino
sabato 18 febbraio 2017, ore 21.00

lectio di Umberto Galimberti a partire dal Simposio di Platone

Le cose d’amore non appartengono al racconto dell’anima razionale perché, in loro presenza, l’anima si sposta, esce dal recinto umano della ragione e si ricongiunge alla follia degli dei. Ma non ci perdiamo in essa, perché ci accompagna l’amato, a cui siamo legati proprio perché ha colto e in qualche modo riflesso la nostra follia.

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Umberto Galimberti
“Le cose dell’amore”
Feltrinelli

“Nell’età della tecnica l’amore ha cambiato radicalmente forma”

Quando dico «ti amo» che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? E come si trasforma questa parola quando il desiderio si satura, l’ idealizzazione delude, la dipendenza si emancipa, l’ eccesso si riduce, la follia si estingue? Non c’ è parola più equivoca di «amore» e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione. Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l’ amore si nutre di novità, di mistero e di pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall’ idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l’ amore in un affetto privo di passione o nell’ amarezza della disillusione. Qui Freud ci pone una domanda: «Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?». Quanti cambiamenti dell’ altro ignoriamo per garantirci un partner prevedibile? L’ amore uccide il desiderio. E siccome in qualche modo lo sappiamo non è raro che trasformiamo in abitudini le persone che amiamo, e, attraverso questa degenerazione protettiva, ci garantiamo la sicurezza della casa e ci difendiamo dalla vulnerabilità intrinseca dell’ amore. Le caratteristiche adorate dell’ altra persona, che un tempo ci avevano fatto innamorare, possono anche non essere affatto illusorie, ma siccome perdere chi è «unico al mondo» è molto più doloroso che perdere uno qualsiasi, dall’ idealizzazione di solito ci si difende o troncando la relazione dopo il primo incontro, o aggrappandosi alle imperfezioni e ai difetti del partner per tenere a bada la fascinazione. Meglio spegnere subito una stella o offuscare la sua luce, piuttosto che correre il rischio che quella stella non splenda per noi. Brividi sì, ma brividi sicuri. Si sente dire che, in amore, desiderio da un lato e idealizzazione dall’ altro giocano contro il «sano realismo» che forse, oltre a non essere più reale dei desideri e delle idealizzazioni che incendiano le nostre passioni, è solo l’ ultima illusione che costruiamo per difenderci anticipatamente dalla disillusione. Ma nelle regioni, abitate dalla prudenza scambiata per «esame di realtà», non è dato incontrare le case d’ Amore. E allora è molto più vero dire: «Ti odio perché ti amo. Ti denigro per poter continuare la convivenza con te». Davvero l’ odio è il compagno inevitabile dell’ amore? Se gettiamo uno sguardo nelle nostre menti, dove si verificano la maggior parte dei crimini passionali, parrebbe che le cose vadano proprio così. In effetti non c’ è nessuno che non abbia provato un profondo sollievo quando l’ amore sopravvive al primo litigio all’ ultimo sangue. Anzi di solito in simili circostanze «si fa l’ amore», quasi per celebrarne la profondità e la resistenza che non si sarebbe potuto verificare in nessun altro modo. Sembra quindi che l’ odio sia il compagno inevitabile dell’ amore, la cui sopravvivenza forse non dipende tanto dalla capacità di evitare l’ aggressività, quanto dalla capacità di viverla e di oltrepassarla in nome dell’ amore. Ma c’ è anche chi non regge il gioco forte dell’ amore e dell’ odio perché, a un certo punto del percorso, l’ amore per sé confligge con l’ amore per l’ altro. In questo caso non si prova aggressività, ma semmai «ambivalenza», per cui da un lato vogliamo essere con l’ altro, ma nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di qui quell’ esserci e non esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa. Perché amore è una «relazione», non una «fusione». Nel viaggio che si intraprende fuori dal «noi» e che prescinde dal «noi», è il «noi» che si tradisce, mai il «tu». Quel che si imputa al traditore è di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo. Soltanto se si accetta il cambiamento dell’ altro e lo si accoglie come una sfida a ridefinirsi e a ridefinire la relazione, il tradimento non è più percepito come tradimento. Ma ridefinirsi è difficile così come accettare il cambiamento. Per questo le vie più battute sono quelle della fedeltà, o in alternativa quelle del risentimento e della vendetta. Tutto questo accade perché siamo soliti pensare ad amore come a una vicenda tra uomini e non, come ci ha insegnato Platone, a una vicenda tra uomini e dèi. Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l’ io razionale «patisce» e perciò legge come «altro da sé». Gli dèi infatti sono dentro di noi e la loro follia ci abita. Per questo l’ amore di cui parla Platone non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione di un dio, per cui non è il nostro io a proferir parola, ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci capire che, in presenza di amore, il nostro io subisce una dislocazione che sposta la nostra riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da amore, e non dall’ io che inaugura una storia d’ amore. Amore, infatti, non è qualcosa di cui l’ io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell’ io, qualcosa che lo incrina, che lo apre alla crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall’ ordine delle sue connessioni, per nessi di tutt’ altro genere e forma e qualità. Per questo Platone erge Amore a simbolo della condizione dell’ uomo, mai in possesso di sé, ma sempre dilaniato, ragion per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.

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