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Maurizio Viroli “I Dialoghi di Trani”

Maurizio Viroli, I Dialoghi di Trani

Maurizio Viroli
“I Dialoghi di Trani”

idialoghiditrani.com

“La bellezza del vivere libero”
con Maurizio Viroli
I Dialoghi di Trani
venerdì 22 settembre 2017, ore 10.00


“Noi amiamo la bellezza” spiega Pericle nella sua celebre orazione in elogio alla democrazia ateniese riportata da Tucidide nella sua storia della Guerra del Peloponneso. Nasce da questo testo la tradizione intellettuale che sottolinea il profondo legame che unisce l’amore della bellezza e l’amore del vivere libero.

Maurizio Viroli
Professore Emerito dell’Università di Princeton, Professore di Comunicazione politica all’Università della Svizzera Italiana (Lugano), e Professor of Government all’Università del Texas (Austin). Ha ricevuto l’onorificenza di Ufficiale della Repubblica Italiana per meriti culturali. Dirige il Laboratorio di Studi Civili dell’Università della Svizzera Italiana e il Master in Civic Education dell’associazione Ethica (Asti).

Maurizio Viroli
“L’autunno della democrazia”
Laterza Editori

laterza.it
Ho cominciato a leggere le opere del pensiero politico repubblicano agli inizi degli anni Ottanta. Ero studente di dottorato all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ed ebbi la grande fortuna di incontrare Quentin Skinner, venuto da Cambridge per tenere una lezione su Thomas More. Fu lui ad incoraggiarmi a studiare il pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau nel contesto del repubblicanesimo moderno: non un precursore di John Rawls, come poco saggiamente mi proponevo, ma un continuatore, per importanti aspetti, di Niccolò Machiavelli. Da allora ho continuato a lavorare sul pensiero politico repubblicano e credo proprio che resterà il mio argomento prediletto di ricerca.

Non sono soltanto uno studioso del repubblicanesimo, mi sento repubblicano. Amo i princìpi fondamentali di questa tradizione e cerco di applicarli nella vita e nell’analisi dei fatti politici e sociali. Più volte mi sono chiesto perché, fra le diverse idee politiche che ho studiato, soltanto quelle repubblicane mi hanno affascinato a tal segno da diventare la mia filosofia di vita. Credo che la ragione sia che si adattano bene all’indole ribelle e irrequieta che ho manifestato fin da piccolo. Ricordo a questo proposito un episodio che risale a quando ero bambino e abitavo a Forlì con i miei genitori, in via Archimede Mellini, in un appartamento angusto e freddissimo, riscaldato soltanto da una stufa a gas tenuta, per la nostra povertà, sempre con la fiammella azzurrognola al minimo. Un parente mi regalò un pallone bianco di plastica, quelli di cuoio erano un sogno irraggiungibile. Era l’unico pallone che avessi mai posseduto e lo portai trionfante alla partita pomeridiana che si disputava, per strada, fino al calare della sera.

All’improvviso vidi tutti i compagni fuggire come lepri. Restai solo con il mio pallone in mano. Mi voltai e capii: era arrivato il vigile urbano, un omone gigantesco che mi strappò il pallone dalle mani e mi annunciò che l’avrebbe sequestrato perché era proibito giocare a calcio per strada. Impazzito di rabbia, mi avvinghiai alle enormi gambe del vigile e cominciai a mordere, calciare, graffiare come una furia scatenata, fino a quando il malcapitato mi staccò a forza e stramazzai piangente sull’asfalto. Sono passati più di cinquant’anni da quell’episodio e soltanto un po’ più di senno e il timore delle conseguenze mi trattengono dal reagire con la medesima violenza alle prepotenze che subisco o vedo altri subire. Nelle pagine di molti scrittori politici repubblicani avverto il medesimo sdegno contro i soprusi, la medesima volontà di reagire e abbattere i prepotenti e gli oppressori.

Per questa ragione non mi stanco di leggere i loro testi, mentre mi vengono subito a noia gli scritti dei filosofi politici, dai quali non traspare alcun moto di sdegno contro le ingiustizie. Se il rancore che covavo dentro non è degenerato in ribellione contro tutto e tutti lo devo al ’68. Per la prima volta qualcuno, oltre ai miei genitori che non c’erano quasi mai, mi accoglieva. La povertà che avevo sempre sentito addosso come una vergogna non contava più nulla; erano, anzi, la ricchezza e la fatuità ad essere meritevoli di disprezzo. Anche i leader, quelli che sapevano cosa dire, parlavano con me e raccontavano di mondi lontani, grandi lotte, popoli eroici: il maggio francese, il Vietnam, la protesta degli studenti americani in quei loro campus che a me parevano l’anticamera del paradiso. Durante le riunioni leggevano e commentavano giornali e riviste di cui non sospettavo neppure l’esistenza, citavano libri: Marx, Lenin, Ho Chi Min, Che Guevara, Marcuse, don Milani e altri ancora. Frequentando il movimento studentesco conobbi addirittura dei professori che parlavano a noi studenti come se fossero dalla nostra parte. Ci chiamavamo ‘compagni’.

Fu con loro e grazie a loro che cominciai a studiare la politica, la società, la storia. Nacquero allora in me la passione per i libri e la voglia di conoscere che mai avevo avuto prima e che da allora non mi hanno più lasciato. Se non fosse stato per il sostegno del movimento non avrei neppure terminato gli studi. Nel gennaio del 1968, se ricordo bene, fui infatti minacciato dal preside del liceo scientifico «Fulcieri Paulucci di Calboli» di espulsione da tutte le scuole d’Italia ai sensi del codice di disciplina scolastica, voce «offesa alla morale». Avevo apostrofato sua figlia, studentessa anche lei, con parole assai volgari rispondendo ad un suo sprezzante commento contro noi ‘contestatori’. Convocarono mio padre, che mai aveva messo piede nel liceo. In presidenza gli notificarono con sussiego e alterigia la decisione che intendevano prendere. Per mia fortuna il caso fu denunciato dai compagni come esempio di autoritarismo e repressione. Fu indetto uno sciopero di solidarietà che, per la prima volta nella storia del liceo, fu unanime. La mobilitazione culminò in un’affollatissima assemblea presso la Saletta della Provincia, un piccolo vecchio teatro, e strappò al consiglio dei professori l’impegno a tramutare la minacciata espulsione in sospensione di quindici giorni. Tralascio gli episodi da melodramma, come l’abbraccio di perdono che la figlia del preside mi concesse sul palcoscenico fra gli applausi di tutti e la commozione delle professoresse più anziane, felici di assistere ad una scena che avevano visto solo nei film.

Un altro aspetto del pensiero repubblicano che lo rende particolarmente consono alla mia storia personale è il disprezzo per la corruzione, la vanità, l’ostentazione della ricchezza e l’animo servile. Anche in questo caso le esperienze della vita aiutano a capire le mie passioni intellettuali. Per potermi mantenere agli studi, a quattordici anni lavoravo come garzone di bottega presso una segheria e a sedici trovai posto come cameriere negli alberghi della riviera romagnola. Cominciavo la stagione il 1° giugno, prima che l’anno scolastico terminasse, e la chiudevo il 30 settembre, un giorno prima di tornare sui banchi di scuola. Fu lì che vidi da vicino il mondo dei ricchi. Tranne pochissime eccezioni, erano ignoranti, prepotenti, volgari. Nonostante questo, se volevo avere le loro ‘mance’, che a me erano necessarie, dovevo obbedire ai loro cenni, essere servizievole, e dissimulare il disprezzo che provavo nei loro confronti. Da quegli anni mi rimase nell’animo un sordo rancore che capii soltanto quando lessi nelle Confessioni l’episodio della cena nel palazzo del conte di Govone, dove Rousseau serviva come domestico. Grazie a Rousseau, il mio rancore assunse il significato di una giusta reazione contro il mondo del privilegio senza merito. Dopo Rousseau venne Machiavelli, con il suo monito che la povertà non deve impedire a chi merita di accedere ai più alti onori e con le sue invettive contro la corruzione. Ce n’era d’avanzo perché Rousseau e Machiavelli, e con gli anni più il secondo che il primo, diventassero e siano ancora oggi i miei compagni e maestri. Fu soltanto dopo il 1996 che cominciai a pensare di diffondere idee repubblicane nell’opinione pubblica italiana e nella parte migliore della sua élite politica

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ascoltare fa pensare

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