Matteo Giancotti “Paesaggi del trauma”

Matteo Giancotti. Matteo Giancotti. Paesaggi del trauma. Bompiani.

Matteo Giancotti
“Paesaggi del trauma”
Bompiani

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La Grande guerra e la Resistenza hanno prodotto un terremoto nella letteratura: esprimere il nucleo indicibile di una violenza di tale portata attraverso i vecchi canoni non era possibile. Per la prima volta nella storia dell’umanità milioni di individui sono stati messi di fronte ad armamenti di enorme potenza distruttiva e un nuovo, feroce modo di combattere si è imposto, mutando il rapporto tra uomo e natura per sempre. La rappresentazione del paesaggio ne ha risentito fortemente. Nella Grande guerra, come dimostrano i testi di Emilio Lussu o Renato Serra, la condizione del soldato al fronte sembra riflettere una frattura incomponibile tra uomo e ambiente. Nella Seconda guerra mondiale invece, col ritorno del soldato-partigiano nell’alvo della natura, si riaffacciano immagini di un paesaggio a misura umana, come nelle pagine di Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Giovanna Zangrandi, Angelo Del Boca: protettivo e adatto a una nuova alleanza con gli uomini. ”Paesaggi del trauma” indaga un nutrito corpus di diari e memorie che l’autore sapientemente fa dialogare con i testi che parlano delle recenti guerre nell’ex Jugoslavia, narrate da Mathias Énard in ”Zona”, opera in cui le immagini di violenza del XX secolo vengono proiettate nello scenario della storia europea.

da “Paeaggi del trauma” di Matteo Giancotti
La Prima guerra mondiale e la Resistenza sono due degli eventi che più hanno contribuito a modificare le strutture psichiche e culturali su cui, nel secolo scorso, si fondavano la coscienza dei singoli e i sistemi di valori delle società. E’ proprio questa, in effetti, la caratteristica principale degli eventi che si possono definire traumatici: la capacità di forzare le difese della coscienza e di stravolgere gli equilibri degli individui e delle comunità. Oggi noi viviamo in un’epoca che è stata definita – fin dal titolo di un importante saggio di Daniele Giglioli – «senza trauma»: un’epoca nella quale, paradossalmente, l’assenza di trauma produce una letteratura ricercatamente violenta e “traumatica”. Nel secolo scorso, invece, il rapporto fra trauma ed espressione era sbilanciato in senso opposto: i traumi, effettivamente subìti, erano legati all’idea dell’indicibilità, dell’impossibilità di rappresentazione, della rimozione. E’ quindi possibile che siano stati i silenzi e i vuoti, più che le parole della letteratura di testimonianza, a esprimere compiutamente quei traumi, poiché spesso il trauma è rimasto, per usare un’espressione di Andrea Cortellessa, un «trauma muto – mai completamente espresso ma sempre immanente, sottotraccia». Per il caso della Grande guerra, per esempio, proprio Cortellessa ha richiamato l’attenzione dei lettori su un emblematico libro “sommerso”, mai venuto alla luce: il libro che Clemente Rebora aveva progettato e in parte scritto sulla sua esperienza della Prima guerra mondiale, senza però mai riuscire a concluderlo; e si potrebbe ricordare, a proposito, che le opere maggiori di Beppe Fenoglio, oggi ritenuto il più grande scrittore della Resistenza, sono state pubblicate postume e incompiute.

Non si sbaglierebbe se, per verificare che esiste una sorta di migrazione o transizione sotterranea dei significati traumatici dall’interno della psiche ai fatti esteriori, si cercassero le tracce di quei due traumi epocali anche nel sovvertimento dei generi che la letteratura della Grande guerra e della Resistenza hanno prodotto, quasi che quegli eventi avessero richiesto, per essere rappresentati, una nuova organizzazione delle forme e degli statuti letterari. Allo stesso modo, dovrebbe risultare plausibile il tentativo di verificare la presenza del trauma nella visione e nella concezione del paesaggio che emerge dalle scritture di guerra, come se proprio al paesaggio toccasse esprimere, infine, nella forma più autentica, il nucleo indicibile della violenza della storia. Questo sempre ricordando che, nella prospettiva sociologica, semiologica e letteraria che qui interessa, ciò che conta non è tanto il trauma effettivo, ma la sua elaborazione culturale, il suo emergere ed eventualmente il suo imporsi nel discorso pubblico e nella memoria pubblica.
Il trauma bellico, come dovrebbe risultare dai capitoli di questo libro, ha in effetti modificato la percezione della natura e dello spazio e, di conseguenza, l’elaborazione del paesaggio, che dalle percezioni spaziali dipende. Questa considerazione conferma la tesi di Michael Jakob – uno dei maggiori studiosi del paesaggio – secondo cui i più grandi cambiamenti nel modo di concepire natura e paesaggio si registrano proprio nei momenti di crisi delle società. Ogni volta che si trova ad affrontare grandi trasformazioni (per esempio durante e dopo le rivoluzioni industriali), l’uomo modifica infatti anche la propria relazione con la natura: per paura di perderla definitivamente, sente più forte il desiderio di recuperarla, e questo desiderio comporta anche una prospettiva diversa sulla natura. Da questo nuovo rapporto tra uomo e natura emerge una nuova idea di paesaggio. Jakob ha sintetizzato il concetto in una formula:
P = S + N
che si spiega così: il paesaggio risulta dalla relazione tra soggetto e natura. E’ una semplificazione efficace, posto che il soggetto non è mai da intendersi solo come individuo, ma come un soggetto collettivo che coincide con una fase storica della società e con certe fasce della società, o di una comunità: un soggetto la cui idea di paesaggio è in stretto rapporto con l’insieme delle idee di paesaggio elaborate dagli altri membri della sua comunità.
Il rinnovamento dell’idea di paesaggio che emerge sempre nelle fasi traumatiche della storia risulta anche più radicale se la natura e i luoghi hanno subìto a loro volta delle trasformazioni improvvise e violente, come nel caso della Prima guerra mondiale; o se, come per i partigiani durante la Resistenza, il ritorno all’esperienza “totale” della natura – quasi un’immersione, in effetti – è determinato da contingenze strategiche che si manifestano in modo repentino, come accadde in Italia nella seconda metà del 1943.

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