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Vanessa Roghi “Lezioni di Fantastica”

Vanessa Roghi "Lezioni di Fantastica" Laterza Editori

Vanessa Roghi
“Lezioni di Fantastica”
Storia di Gianni Rodari
Laterza Editori

laterza.it

Gianni Rodari non ha ‘soltanto’ inventato favole e filastrocche, ha fatto molto di più: ha inventato un nuovo modo di guardare il mondo.
Vanessa Roghi ricostruisce e racconta la vita di un grande intellettuale a partire dai grandi ‘insiemi’ che l’hanno riempita – la politica, il giornalismo, la passione educativa, la scrittura e la letteratura – con l’ambizione di raccontare un Gianni Rodari tutto intero, di sottrarlo allo stereotipo dello scrittore ‘facile’.

“Uno degli esercizi di fantasia più noti di Gianni Rodari è il gioco degli insiemi, risponde alla domanda formulata «dal bambino che vuol sapere chi è, e la mamma gli dice ‘figlio’, lo zio ‘nipote’, ma è anche un ‘fratello’, un ‘pedone’, uno ‘scolaro’ eccetera eccetera; e ogni volta fa un nodo su una corda; insomma, scopre (matematica) gli ‘insiemi’ di cui fa parte». Ognuno di noi, così, è figlio, amico, fratello, ma anche di Manziana o di Bolsena, ha gli occhi verdi, va in bicicletta, mangia il gelato a colazione.

Chi è, dunque, Gianni Rodari, a quale insieme, a quanti insiemi, appartiene? Partiamo da un ricordo di Antonio Faeti, studioso e amico di Rodari: «Rodari aveva quasi vent’anni più di me: giusto l’arco di un’intera generazione. Tuttavia in molti dibattiti, in convegni, in tavole rotonde a cui abbiamo entrambi partecipato, accadeva che la parte del vecchio dovessi inevitabilmente interpretarla io, come se avessimo preso in questo senso un ammiccante accordo, mai più tradito». È una sera romana del 1973, a Gianni Rodari è stato chiesto di presentare Guardare le figure, saggio sulle illustrazioni dei libri per l’infanzia, uscito per Einaudi l’anno precedente. «Con la grazia inimitabile, l’umorismo, l’arguta imprendibile profondità che metteva in queste cose, Rodari, per quanto fosse lì presente, davanti ai sorridenti ascoltatori, mi descrisse come un vecchio professore, forse impazzito a causa dei troppi libri letti e riletti in continuazione. Una specie di maniaco cacciatore di farfalle che rinunciava agli insetti per collezionare antiche stampine di cui si era follemente innamorato, in un’infanzia remota».

Quei libri di cui parla Faeti, infatti, Rodari da bambino non li ha letti, e pure se li avesse letti forse non li avrebbe amati, così come era accaduto alla grandissima maggioranza dei bambini appartenenti alla sua generazione e a quelle precedenti. Le storie della letteratura per l’infanzia, e anche Guardare le figure, hanno sempre dimenticato di tener conto di un dato fondamentale, cioè che l’«infanzia storica» in Italia non aveva mai letto nulla, «presa com’era da altri problemi: la denutrizione, la pellagra, la fame, il lavoro minorile, il disambientamento causato dalle frequenti emigrazioni. I libri per bambini, ‘storicamente’, erano destinati ai figli dellamedia e alta borghesia (con qualche eccezione, ridacchiava Rodari, costituita dagli incontri fortunosi e particolari, come quello dell’autore di Guardare le figure), non certo appartenente alle due classi privilegiate, con nutritissime e vecchie biblioteche».

Una riflessione che Rodari riprende l’anno successivo, nel 1974, invitato al primo convegno internazionale su Pinocchio, dove ricorda come, negli anni in cui il libro di Collodi viene scritto, i bambini delle classi povere non andassero a scuola, ma a zappare la terra o a badare alle pecore; e anche nelle regioni più progredite, dopo la prima o la seconda elementare, entrassero in fabbrica:

Le vecchie del mio paese, e anche quelle di famiglia, ricordavano bene come a sette, otto anni, fossero andate in cartiera o in filanda a lavorare. Le filande erano lontane. Donne e bambine partivano la domenica sera, cantando le litanie per farsi coraggio nel buio delle strade, venivano alloggiate in dormitori comuni, tornavano al paese il sabato sera con la paga avara, ma preziosa come gli zecchini d’oro di Pinocchio. Le bambine facevano il turno in cartiera dalle otto di sera alle sette di mattina. Da vecchie ci raccontavano queste cose con una strana allegria. Esisteva allora una netta e largamente accettata ‘divisione del lavoro’ tra i ragazzi, pochi, che potevano commuoversi, leggendo Pinocchio, nel punto in cui il burattino cuor d’oro lavorava giorno e notte per mantenere Geppetto malato, la fata all’ospedale e l’improduttiva lumachina per soprammercato, e gli altri ragazzi che, in più gran numero, trascorrevano faticando l’età della fiaba. Di qua, insomma, i piccoli vetrai, i piccoli vagabondi, che recitavano la loro disavventura in prima persona, senza sospetto di letteratura; di là i fortunati lettori della loro storia, o di storie simili, come se ne trovano nel Cuore.

L’«infanzia storica», nata in un’Italia con pochi libri, figlia di analfabeti ma ricca di una tradizione orale, fatta di veglie in stalle affollate, un’infanzia a cui appartiene anche Gianni Rodari. «Non c’erano libri per bambini in casa mia, ce n’erano ancora meno in casa di mia madre. A sette anni è andata a lavorare in cartiera e non credo avessero dei libri». Non era lei a raccontare le favole, dirà Rodari in un’intervista a Nico Orengo del 1979, la zia, la nonna semmai; la mamma no, non aveva tempo.

Crescere in una casa senza libri per poi diventare uno scrittore non è un’esperienza così rara nel Novecento. Indagare sul momento in cui scoppia l’amore fra il bambino e la pagina di un libro è, tuttavia, sempre, un’esperienza interessante perché getta luce su un angolo buio della storia, quello dell’infanzia di famiglie che non posseggono la parola scritta.

A maggior ragione se poi il bambino, da adulto, scriverà per i ragazzi, allora «è naturale che incuriosiscano soprattutto l’infanzia e l’adolescenza: è in quelle stagioni della vita che possono infatti annidarsi le possibili motivazioni a dedicarsi più tardi a un ‘mestiere’ così singolare, e dai ricordi di quel periodo è comprensibile che lo scrittore attinga spunti da rielaborare sul piano fantastico».

È stato Marcello Argilli, il primo biografo di Gianni Rodari, a farsi questa domanda e raccontare al grande pubblico da dove fosse spuntato quello scrittore così noto a tanti al momento della sua morte, il 14 aprile 1980, ma così sconosciuto ancora oggi, a quarant’anni da allora. Eppure Rodari, come Pollicino, ha disseminato di indizi le sue filastrocche, i suoi articoli e anche i suoi libri per raccontarci la sua storia: tutti racchiudono un preziosissimo archivio di memorie private, sassolini bianchi che ci consentono di ripercorrere a ritroso la strada fino alla casa dove tutto ha avuto inizio.

E l’inizio non può che essere questo: c’era una volta un lago, circondato da alte montagne, e sul lago una città che si chiamava e si chiama Omegna.”

Vanessa Roghi, storica, è autrice di documentari per La Grande Storia di Rai Tre.


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