Giovanni Frangi
Una conversazione d’arte
Giovanni Frangi, autoritratto di un artista che crede nella pittura
La Repubblica, 4 febbraio 2022
di Massimo Recalcati
Il nostro tempo è stato definito dal grande critico francese Jean Clair come il tempo della «morte clinica dell’arte»: la pittura appare in via di estinzione sostituita irreversibilmente da altre pratiche espressive come quelle della performance, della fotografia, del video, dell’installazione. Non si tratta però solo di un mutamento tecnico dei linguaggi. La morte clinica dell’arte implica anche la perdita del suo mistero, del carattere solenne della sua forma, della sua aura. Al suo posto troviamo invece il culto dell’abbietto, del disgustoso, dell’informe o il puro divertissement concettuale o percettivo.
Mai come oggi, commenta Jean Clair, «l’arte è stata così cinica e ha così amato sfiorare la scatologia, la lordura e l’oscenità». Se questo è lo spirito del nostro tempo, sono sempre meno coloro che provano ad opporre alla deriva “basso materialista” dell’arte contemporanea la forza inesauribile e trascendente della pittura. Giovanni Frangi, uno dei pittori più interessanti del nostro Paese, è senza dubbio uno di questi. Da quarant’anni la sua ricerca pittorica si è sviluppata con rigore e vivacità preservando l’antica tavolozza del pittore. In tutti questi anni egli infatti non ha mai ceduto alle tentazioni di abbandonare il cavalletto per spingersi nei territori oggi frequentatissimi dell’esibizionismo provocatorio post-pittorico.
In un bel libro titolato L’intervista, pubblicato dall’audace e intelligente editore Magonza e curato da Giovanni Agosti, storico dell’arte raffinatissimo e amico personale del pittore, Giovanni Frangi si confida a Luca Fiore in una conversazione a tutto campo. Ne scaturisce innanzitutto un ritratto dell’artista e della sua passione per la pittura. Essa nasce misteriosamente sin da bambino quando il piccolo Giovanni amava disegnare e dipingere usando bagnare le sue matite con la propria saliva.
Una vocazione, diremmo senza paura di abusare della parola. Si perché se è vero, come ricorda lo stesso Frangi in questa intervista, che, per un verso, «la mano del pittore va educata», per un altro verso, è anche vero che questa educazione le consente poi di «andare avanti da sola» seguendo una sua propria misteriosa cadenza.
È allora la mano stessa che «diventa intelligente». La pittura assume subito per il pittore questo carattere irrinunciabile come se avesse a che fare con una energia che esige di passare solo da lì: «Se non dipingo per lungo tempo sono a disagio e sto male», dichiara. Chi conosce il suo lavoro non può non riconoscere in questa dichiarazione la forza che attraversa fisicamente i suoi quadri e che trova la sua massima espressione nelle forme della natura alle quali Frangi da sempre dedica la propria arte: montagne, boschi, cascate, albe, isole, aurore, tramonti, cieli, notti, alberi, paesaggi. Ma questo libro non racconta solo la storia di una vocazione e di una formazione, o, meglio, di come una vocazione divenga passo passo una vera e propria formazione, ma attraverso questo racconto descrive anche un intero mondo intellettuale.
Indubbiamente in esso ha un posto speciale lo zio di Frangi, fratello di sua madre, ovvero Giovanni Testori. Ma non solo. La galleria degli incontri è ampia e varia; Alda Merini, Aldo Busi, la Milano degli anni Settanta-Ottanta, le sue tensioni politiche e il suo mondo culturale, l’Accademia di Brera, i viaggi, la collaborazione con Giovanni Agosti, le sue grandi passioni che spaziano da Giacometti, al quale dedica la sua tesi in Accademia, a Boccioni, da Bacon a Schifano, da Guttuso a Morlotti, da Burri a Twombly, da Monet a Kiefer, da Van Gogh a Veronese, da Matisse a De Pisis, da Cézanne a De Staël.
Quello che li unisce in un filo rosso impercettibile, ma fortemente presente in Frangi, è l’idea della pittura come possibilità di trovare un’immagine che fratturi la nostra percezione ordinaria del mondo. La sua pittura resta una pittura delle cose del mondo, una pittura vincolata alla natura, ma la stratificazione materica e l’uso vivo del colore che la caratterizza portano il quadro verso l’incanto di una immagine che non replica semplicemente le cose ma offre di esse una visione nuova e sorprendente. E questo accade soprattutto nel suo periodo nero, dove la rinuncia all’impatto espressionista del colore lo muove verso il limite stesso della pittura.
È possibile dipingere il nero? È stata questa una delle stagioni più significative del suo intero percorso artistico: attingere al nero come attingere al limite espressivo del linguaggio. È il punto dove il cammino di Frangi s’incrocia con quello di altri due grandi pittori del nero: Rothko e Burri. Ma anche nel “periodo del nero”, l’incanto dell’immagine non si esaurisce. È quello che il pittore continua a ricercare incessantemente nel suo lavoro: «isolare un’immagine», rendere la sua presenza assoluta, immensamente sacra come l’evento stesso del mondo.
«Alla fine, è vero, sono un pittore realista. Ed ero consapevole che non c’erano differenze tra fare un ritratto o un paesaggio. Solo più tardi mi sono accorto che avevo molta più libertà nel dipingere la natura.» A Milano, dal 2014 al 2018, in più puntate, Giovanni Frangi, uno dei maggiori artisti italiani di oggi, è stato al centro di un’intervista di Luca Fiore. Questo materiale è stato rimontato, tra il 2019 e il 2020, con la collaborazione di Giovanni Agosti. Ne è uscito un ritratto fuori del comune di un artista, quando il futuro si fa avaro e l’altra metà della propria strada si vorrebbe tutta impegnata dalle scelte della maturità. In mezzo ci sono la famiglia, gli amori, le città, gli amici, gli animali, i maestri – a partire da Giovanni Testori – tra vorticosi salti di piani, dove la nostalgia non occupa mai il centro della scena e dove le risate sono sempre dietro l’angolo. Quest’inchiesta, desultoria e appassionata, alla ricerca delle proprie radici espressive, è accompagnata da un apparato fotografico inconsueto, che trasforma il volume in un libro d’artista sui generis.
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