Conversazione di Livio Partiti con Ettore Pastena "Risse", Kolibris Edizioni
Ma perché la rissa e una poetica segnata
dalla matrice della battaglia? Il versificare di Ettore Pastena sembra
lasciare intendere la convinzione che l’esistenza muoia se non allargata
alla prova: “Per non morire d’un molle male”. Nessuna salvezza avviene
spontaneamente, la vita per essere salvata deve essere violata,
divaricata, affinchè possa pulsare. La sua poesia, per usare
un’espressione di Sartre, intende toccare nel corpo dell’altro, della
vita, che è sempre in situazione, la carne, la pura contingenza della
presenza. Non importa se tal fine chiede di ferire la superficie
rassicurante del quotidiano vivere, non preoccupa il poeta se ciò esige
dolore, poiché egli sa che la vita è solo di battaglia. “Agricoltore del
verso” egli sa arare la consistenza della materia umana, rivoltarne
zolle profonde attraverso la lama d’una accesa e capace visionarietà,
perché il mondo, riconoscendosi, sappia nominarsi in una parola nuova:
“Ma entrerai in tutti / con prepotenza bella”. È per questa stessa
vocazione che l’espressione poetica di Pastena si fa fallica e la
dinamica dei suoi versi robusta di spinte che tentano di ingravidare il
cammino della vita, la donna, come intitola un suo prezioso
componimento, la pelle del mondo e della storia, dentro la quale il suo
poetare spinge a slabbrare un vagito di nuovo senso: “ingravidammo la
terra nell’arco di carne / e subito nacque la Storia”.
Se la salvezza
è generare un nuovo incamminamento e ogni violazione tende a una una
restitutio, per citare un’altra poesia di Pastena, in termini di
rinascita del senso, della lingua, dell’immagine, il gioco vale
certamente la candela, e si può agire l’oltraggio, scandalizzare la
morale, colpire ogni politicamente corretto, turbare la visione
scontata, il mondo già masticato, la rilassata statuizione del dato e
infine offendere i nostri più affermati tabù. “Gonfio il membro / quanto
il verbo / che avremmo tanto voluto come figlio…”
Certo, una forma
poetica così muscolare e appassionata non regge l’attivazione per
semplice istinto, per separate pulsioni intermittenti; non può bastare
la forza energetica del bisogno a sostenere la sua espressione, la quale
esige invece un movente costantemente verticale, mai adagiato sulla
coincidenza orizzontale della vita e sempre estroflesso sull’altro: il
desiderio. Se l’inconscio ha struttura di linguaggio anche il desiderio,
che in esso abita, è un fatto linguistico particolarmente associabile
ad alcune figure retoriche, la metafora forse, e soprattutto la
metonimia, dinamica anche psichica che rende tangenti e scambievoli
entità contigue, ma differenti: “Metonimia primaria / riconoscersi nel
dubbio / invece che nel mondo”.
dalla prefazione di Umberto Fornasari
ascolta qui la conversazione
Se vedi bande nere dalle svolte del paese
farsi intorno alle chiese
ad invocare pianti d’alba sul sagrato;
se ogni attraversamento sarà arretrato
nel ritorno di sabbie e sterchi che lasci
per poi ritrovarli a indicarti la strada
Pollicino senza vita,
se non l’ultima del gatto…
A te che vivesti nelle domeniche
e nelle piazze con le fontane,
più non dico il dire.
Ti lascio il silenzio e questo volto,
le sole grafie che so giuste.
Ti lascio gli occhi muti dei bovini,
il moto a pendolo
del collo dei piccioni,
i marmi bianchi dove leggemmo i suoni,
da qui, da questa terra,
templi di nessuno
imbanditi nel regno del ninnolo
che si fa segno,
simbolo,
idea,
nello stravolto delle nostre pupille,
che videro luce
e il tenue bonario maleficio,
su cui riposa morto nostro Signore,
nelle balere del cosmo,
nell’autoerotismo delle eternità che si vegliano.
Ti lascio i calli dei frati e gli angeli idioti,
ti lascio il nulla
a un passo da questa pagina….
IL POSTO DELLE PAROLE
ascoltare fa pensare