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Gilda Policastro “Bottega di Poesia”

Gilda Policastro "Bottega di Poesia" La Repubblica

Gilda Policastro
“Bottega di Poesia”
La Repubblica

repubblica.it

L’edizione romana di Repubblica, come nelle altre città italiane, da Milano a Palermo, inaugura la sua “Bottega di poesia”. I lettori potranno inviare i loro versi all’indirizzo di posta elettronica lettereroma@repubblica.it, specificando nell’oggetto “Bottega di poesia”, oppure per posta ordinaria (La Repubblica, Redazione Cronaca di Roma, Rubrica “La bottega di poesia”, via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma) con nome e cognome, indirizzo e-mail e numero di telefono dell’autore. La selezione delle poesie, che saranno pubblicate su Repubblica, è affidata a Gilda Policastro, poetessa, narratrice e critica letteraria.

Gilda Policastro ha scritto, tra gli altri, su Leopardi, Sanguineti, Manganelli, Pasolini. È redattrice della rivista «Allegoria» e ha collaborato alle pagine culturali di diversi quotidiani, dal «Manifesto» al «Corriere della Sera», oltre che a lit-blog e siti di informazione letteraria, come «Le parole e le cose» e «bookdetector». Ha pubblicato diverse raccolte di poesie e due romanzi, entrambi editi da Fandango: Il farmaco (2010), Sotto (2013) e Cella (2015).

Gilda Policastro "Bottega di Poesia" La Repubblica


Gilda Policastro
“Cella”

Marsilio Editori
«Si pensa alle cose che ci fanno male con lo stesso gusto con cui si ripensa ai piaceri, quel giorno, quella volta. Ci si pensa continuamente, non si riesce a evitare»
Una giovane donna inquieta diventa l’amante di un uomo potente: medico stimato, ricco, impegnato in politica. È la fine degli anni Ottanta e la loro relazione, incentrata su una sessualità ossessiva, talvolta brutale, non manca di dare scandalo in una piccola città in cui i ruoli sono già fissati da sempre, senza nessuna possibilità di riscatto. Dopo che l’uomo si dà alla latitanza per aver curato una brigatista, la donna si rintana in una casa di campagna, da cui esce molto di rado e quasi solo entro il perimetro del suo giardino, sentendo gli altri come presenze minacciose e la figlia stessa come un’estranea. Da questa reclusione volontaria si leva una voce che racconta attraverso continui andirivieni temporali: a tratti incoerentemente e sfiorando il delirio, a tratti in forma nitida, come rivolgendosi a uno psicologo o imitandone il gergo professionale, nello sforzo di dare un ordine e un senso al tutto. Finché in un’altra donna, riservata fino al mistero e alla quale affitterà una stanza, troverà il più improbabile dei rispecchiamenti.

Gilda Policastro
“Non come vita”
Nino Aragno Editore

È questo il libro della prima stagione poetica di Gilda Policastro. E proprio Stagioni è la metonimia che intitola la sua prima sezione. Prima in ordine di composizione ma, ciò che più importa, in termini “narrativi”: col mettere in scena il primo di una sequenza di lutti, inconsutile manto funebre che, alla pelle mentale di chi dice «io», a lungo è calzato come una guaina perfetta. Si dice «stagioni» e si vuol dire dei tempi vissuti, o che piuttosto tali non sono stati: e tuttavia riposti in quello che, con immagine beckettiana e pun rosselliano, viene definito il «deposito / deluttuoso / della memoria». Nei versi più celebri di quello che resta l’ispiratore primo e indiscusso («Sono un tronco, diceva qualcuno»), si cantavano «le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei». Ecco: mentre le morte stagioni si prendono tutto lo spazio – in quest’intirizzito catasto degli estinti – della viva, coi suoi suoni, davvero non c’è traccia. E forse una radice, di questa coazione luttuosa che intride ogni fibra del libro, andrà cercata – oltre che nell’enciclopedia dei palinsesti lirici omaggiati, da Leopardi a Montale – nell’origine remota (ma a tratti rinvenibile), di chi scrive, nelle terre in cui a suo tempo Ernesto de Martino trovò la sostanza antropologica di Morte e pianto rituale. Come in quel repertorio la materia fonda del dolore, sorda e opaca, rilutta alla realtà storica e dunque a qualsiasi elaborazione, a ogni minimo movimento (così nella sequenza più lancinante: «E chi si muove da terra», con quel che segue). Proprio come i morti, per definizione «statici» nel flash che li imprigiona in immaginette votive, chi scrive si rappresenta recluso in una cellula di fiele: rintanato, diceva quell’altro, in un «letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé…». Ed è allora un bene – se non altro per la vita di chi afferma, qui, d’esserne priva – che questa stagione, col suo annichilito splendore catatonico, possa dirsi conclusa.


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