Conversazione di Livio Partiti con Francesca Diano
JAMES HARPUR
Saggio pubblicato sul n°304 di POESIA, Crocetti Editore (Maggio 2015)
riproduzione parziale del saggio
di Francesca Diano
In un primo momento abbaglia, poi stordisce, poi oscura, poi consola. Infine illumina, seppur di una flebile luce, la tenebra in cui ti ha fatto penetrare. È quanto si prova nel leggere la parola di James Harpur e il suo inglese corrusco.
Un lungo percorso di ricerca escatologica, tanto personale quanto collettiva, il suo, che emerge chiarissimo dalle sue stesse parole. “Sono giunto alla poesia solo negli anni dell’università. D’un tratto mi sono trovato ad obbedire a un impulso sotterraneo e decisi che la poesia era un’impresa nobile e un mezzo per esplorare le fondamentali questioni spirituali, quali l’esistenza di un Dio, se la vita abbia un senso, cosa c’è dopo la morte, ecc. questioni che nella mia vita sono sempre state una forza centrale e propulsiva. Forse tutti quegli uomini di chiesa nel mio DNA… La poesia mi apparve una missione, il mezzo che mi avrebbe permesso di penetrare l’escatologia della vita o, almeno, di venire a patti con i miei rapporti personali, con i grandi temi dell’esistenza. Da questo punto di vista, per me scrivere era ed è tuttora un’attività sacra, quasi quanto la meditazione e la preghiera.”
Non sono molti, oggi, i poeti che vedono nella poesia un’attività che li collega al Sacro, così com’era alle sue origini. Ma Harpur è un poeta delle origini. UnUrdichter, si potrebbe dire, poiché la sua poesia attinge proprio a quel magma originario da cui la Parola emerge come lògos, come portatrice di tutti i significati possibili e, allo stesso tempo, come potenza ordinatrice dell’universo. Che separa, distingue, nomina e ordina.
Che questa sia la funzione che Harpur le attribuisce è forse sommamente evidente nel lungo poemetto Voices of the Book of Kells, (Voci del Libro di Kells) esplorazione della genesi di questo prodigioso Evangeliario miniato, dell’animo degli anonimi monaci irlandesi che lo miniarono e, allo stesso tempo, della genesi dell’arte. In quella sfera misteriosa della creazione, che è anche lotta costante fra la materia e lo spirito.
Nato in Inghilterra nel 1956, da padre irlandese e madre inglese, di antiche ascendenze anglonormanne, Harpur tiene a spiegare che il significato originario del suo cognome, documentato già nel XII secolo, è arpista, dunque poeta. Lo fu sicuramente un suo antenato. Ma discende anche da una tradizione familiare di uomini di chiesa, Church of Ireland, come lo fu suo nonno e altri prima di lui. Tuttavia Harpur ha scelto un’altra strada. In lui si sono fuse l’anima dell’arpista medievale e quella del mistico. Perché Harpur è un cantore del Sacro. Nel senso più ampio del termine.
La sua prima raccolta organica, A Vision of Comets, (Anvil Press) è del 1993 e raccoglie buona parte dei testi poetici scritti durante il suo soggiorno a Creta, dove ha vissuto per un anno insegnando inglese. L’isola egea gli fa esplodere dentro una potenza poetica e visionaria che diventerà negli anni la sua voce originale, e la poesia che dà titolo alla raccolta ne è riconoscimento e accoglimento.
Le raccolte successive, The Monk’s Dream, 1996 Oracle Bones, 2001 The Dark Age, 2007, Angels and Harvesters, 2012, tutte edite da Anvil Press, insieme aThe Gospel of Joseph of Arimathea, (Iona Books) 2007 e Voices of the Book of Kells, (2012), confermano la natura esplorativa di questa ricerca, attraverso i due elementi che raccolgono e alimentano la poesia di Harpur: la luce e la tenebra, che non solo non le è opposta, ma le è complemento speculare ed essenziale.
Uno degli aspetti più profondi e significativi della mentalità celtica è la fascinazione per tutto ciò che è passaggio, trasformazione, per il liminale, per quello spazio e quel tempo che si insinuano fra il momento in cui tutto finisce e quello in cui tutto inizia di nuovo, secondo un tempo ciclico, per quello iato abissale che si apre sul mistero che irrompe fra il “non più” e il “non ancora”. Il non casuale twilight di Yeats. Questo spazio incommensurabile, temibile nel quale si inoltra il pensiero del mistico e dell’artista.
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